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 2014  aprile 18 Venerdì calendario

C’È POCO DA RIDERE


Non sono pochi gli italiani che si sentono «felici». Quasi tre su quattro. Per essere precisi: il 73 per cento. C’è da stupirsi, visti i tempi: tristi, più che felici. Eppure non è una novità. L’avevamo già osservato in passato: anche se tutto intorno frana, gran parte di noi cerca di resistere. Si adatta. E si definisce «felice». Nonostante tutto. Certo, non «molto», ma (il 60 per cento) «abbastanza» felice. Consapevole che potrebbe andare anche peggio. Che al peggio non c’è mai fine. In questo senso ci sono d’aiuto le nostre tradizioni – per alcuni, i nostri vizi – sociali. Il nostro familismo, la nostra abitudine comunitaria. Il distintivo nazionale, ciò che, secondo gli italiani stessi, ci fa diversi dagli altri popoli: l’arte di arrangiarsi. La capacità di sfidare i cambiamenti e le difficoltà, grazie al sostegno delle reti comunitarie. In primo luogo, della famiglia. Grazie, ancora, alla cerchia degli amici, delle persone con cui abbiamo legami di confidenza e di consuetudine. Non è «il diritto inalienabile alla ricerca della felicità», che i governi devono garantire agli uomini, secondo la Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776. Più modestamente, la felicità all’italiana ricorda il «mondo delle piccole cose» della tradizione crepuscolare. Che si traduce nella capacità di cercare la felicità, appunto, «nel nostro piccolo». Attraverso la protezione che ci viene offerta dalle persone intorno a noi, che ci circondano e ci tutelano.
Naturalmente, neppure questa condizione minimalista è facile da mantenere. Da riprodurre. Così, nel corso degli ultimi dieci anni, il grado di felicità dichiarato, nel nostro Paese, ha conosciuto un progressivo declino. Che, di recente, ha mostrato un’accelerazione più consistente. Quasi improvvisa. Nel 2005, infatti, pressocché tutti gli italiani (il 90 per cento) si dicevano «felici». Il declino è cominciato più tardi. Dal 2008. Non a caso: è l’anno in cui ha avvio la grande crisi globale. Allora, la quota delle persone che si dicevano felici era scesa all’87 per cento. Sempre tante. Ma tre punti meno di tre anni prima. Quattro anni dopo, nel 2012, il «tasso di felicità» scese di altri 6 punti, attestandosi all’81 per cento. Un anno dopo, la caduta: quasi 10 punti. Così oggi scoprire che il 73 per cento degli italiani si sentono felici non è sufficiente a farci sentire «abbastanza» felici. D’altronde, il degrado della felicità italiana dipende proprio da questo calo. Visto che i «molto felici», dal 2005, sono scesi di circa 6 punti. Gli «abbastanza» di oltre 10.
Evidentemente, l’inquietudine è cresciuta, nell’ultimo decennio, ancor più nell’ultimo periodo. Ha trasformato la nostra felicità in un sentimento precario. «Eroso» dalla crisi economica. Ma anche dell’invecchiamento della popolazione. Non a caso, i più «infelici» sono gli anziani, ma anche i disoccupati. Mentre i più «felici» sono, in assoluto i più giovani, gli studenti e i liberi professionisti. Avere il futuro davanti aiuta ad essere ottimisti. Come aiutano un buon reddito e il controllo sulla propria professione. L’in-dipendenza (non da Roma, ma nel lavoro).
Ma l’Italia è un Paese sempre più vecchio, dove si fanno pochi figli. Dove a 35 anni si è giovani-adulti e a 50 adulti-giovani. Più avanti nell’età, invece, ci si sente giovani. Mentre i «giovani davvero» sono sempre di meno e, quando possono, partono. Se ne vanno altrove, visto che questo non è un Paese per giovani. Così, se felicità e giovinezza si coniugano, vanno insieme, è difficile essere felici, in Italia. Meglio «fingere». D’altronde, la crisi ha compromesso anche le certezze di coloro che avevano garantito al Paese e alla società una spinta propulsiva, negli ultimi vent’anni. I piccoli imprenditori. I lavoratori autonomi. Oggi sono tra i meno felici. E non potrebbe essere diversamente, visti i tempi. È significativo osservare, poi, la felicità tiepida delle donne e, soprattutto, delle casalinghe. A conferma di quanto sia frustrante essere donne e casalinghe, in Italia. Difficile da nascondere, anche a se stessi. Il sentimento di felicità, invece, è sempre tenuto vivo e alimentato dalla fiducia negli altri. E dall’impegno sociale. È così che si va oltre la felicità limitata e realista, dettata dall’arte di arrangiarsi. «Felicità è partecipazione» potremmo dire, echeggiando quel che recitava Giorgio Gaber riferendosi alla libertà. Soprattutto quando la partecipazione va al di là – e al di qua – della politica. Coloro che dichiarano un maggior livello di partecipazione sociale, «volontari» o impegnati in attività «non convenzionali» a sostegno dei «beni comuni» e coloro che frequentano l’associazionismo culturale, ma anche sportivo, sono i più felici. Almeno, così si dichiarano 8 su 10. Per questo la ricetta della felicità suggerirebbe di superare le nostre abitudini, il nostro «carattere nazionale». Di ridimensionare l’arte di arrangiarsi, il familismo.
Non di negarlo o, peggio, di nullificarlo. Ma di limitarlo. E di coltivare, invece, altre virtù, che da noi hanno sempre avuto vita difficile e scarsa popolarità. Il senso civico e delle istituzioni. La politica come comunità, invece che come pratica individuale, mediatizzata, estranea alla vita delle persone. Dovremmo, cioè, spostare l’attenzione dalla felicità privata alla felicità pubblica (per citare Albert O. Hirschman).
La ricerca della felicità, infine, dovrebbe indurci a non fingere l’eterna giovinezza. A non immaginarci per sempre giovani. Ma a coltivare buone ragioni, perché i giovani possano restare, o meglio, rientrare in Italia. Per attirare giovani di altri Paesi. Per integrare gli immigrati. Che oggi, non a caso, se ne stanno partendo verso altri Paesi, più affluenti. Dove l’economia e il lavoro crescono più che da noi. Come i nostri giovani. Senza di loro ci ritroveremmo, sicuramente, meno sicuri. Perché più vecchi e più soli. In altri termini più infelici. Trascinando in questa penombra anche loro, i giovani. La componente sociale che, nell’ultimo anno, ha subito più di tutte il calo della felicità. D’altra parte, è inevitabile. A convivere con un popolo di adulti e anziani sempre più tristi, c’è poco da stare allegri...

Ilvo Diamanti, il Venerdì di Repubblica 18/4/2014