Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 19 Sabato calendario

TELEFONINI AL VELENO


Adesso, mentre scrivo, sono assalito dal senso di colpa. Mi torna il mente quel telefonino che ho cambiato troppo in fretta: che fine avrà fatto? Sarà in qualche cassetto o starà facendo danni? E il vecchio televisore che avevo messo in cantina in attesa di chissà che: mi ricorderò di rottamarlo come si deve, prima che sia troppo tardi? Mentre mi tornano in mente i miei rifiuti tecnologici di una vita ho davanti agli occhi lo sguardo fiero di un ragazzino africano. Si chiama Isaiah Atta e quando il regista americano Isaac Brown lo ha incontrato per la prima volta, nel 2008, aveva 12 anni. È accaduto in Ghana, vicino ad Accra, in un posto che è diventato il simbolo mondiale delle nostre colpe di esseri iperconnessi, digitali, consumisti e un po’ cialtroni.
Quel posto di chiama Agbogbloshie ed è semplicemente il territorio più inquinato del mondo, secondo un report recentemente pubblicato dalla BBC. Al secondo posto c’è Chernobyl. Solo che in Ghana non è esplosa una centrale nucleare come accadde nell’Ucraina settentrionale nell’86. Ad Agbogbloshie la bomba nucleare siamo noi: anzi, lì una piccola bomba di veleni mortali esplode ogni giorno da anni, quando decine e decine di camion scaricano rifiuti tecnologici provenienti da tutto il mondo.
Isaac Brown ci è arrivato per girare il film Terra Blight, che vuol dire Terra Dannata, negletta, infettata, scegliete voi la traduzione che vi piace di più. Lui è un giovane film maker che nel 2005, mentre finiva il master all’università della Florida, ha creato la casa di produzione Jellyfishsmack (“branco di meduse”), perché convinto che il cinema indipendente possa ispirare l’azione e in definitiva difendere i diritti civili negati. La storia infinita dei nostri rifiuti elettronici che finiscono in una discarica in Ghana offriva lo scenario ideale per un film di denuncia.
I numeri del fenomeno sono impressionanti. Secondo l’EPA, che è l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente, ogni giorno ci liberiamo di 140mila computer e di oltre 400mila tra telefonini e tablet. Ogni giorno? Ogni giorno. Solo negli Usa, nel 2011, sono state prodotte tre tonnellate e mezzo di e-waste e di queste solo un quarto è stata riciclata. Il resto è finita in discariche o inceneritori. Qual è il problema? Almeno due, e molto grossi. Il primo è che negli oggetti elettronici della nostra vita quotidiana ci sono metalli preziosi: quantità piccole, ma per esempio riciclando un milione di telefonini si potrebbero recuperare 24 chili d’oro, 250 d’argento, 9 di palladio e 9mila di rame. Questo non è solo uno spreco: è la causa di questa folle corsa ai cimiteri del consumismo digitale di molti poveri del mondo. Il secondo problema è che lì dentro, accanto ai metalli pregiati, ci sono anche metalli nocivi come piombo, cadmio, mercurio, che quando vengono bruciati rilasciano diossina nell’aria e se restano nella terra l’avvelenano e inquinano per sempre le falde acquifere.
Agbogbloshie è un’altra Terra dei Fuochi, insomma. E la stavamo costruendo ogni giorno tutti noi senza pensarci. Senza saperlo. Finché Isaac Brown è arrivato lì nel 2008 e ha incontrato Isaiah Atta e ha raccontato la sua storia: lo ha mostrato al mondo mentre implora la madre di poter andare nella discarica a cercare metalli pregiati pur sapendo che molti lì si sono avvelenati a morte, e mentre si aggira fra rifiuti e fuochi mefitici con un martello per rompere i CRT, i vetri dei tubi catodici dei vecchi televisori. Perché lo fa? Per poter andare a scuola, è la risposta. Per trovare i soldi per potersi permettere di andare a scuola. Un pugno nello stomaco.
Terra Blight è uscito nel 2012, ha subito sbancato i piccoli festival indipendenti di cinema e se volete potete scaricarlo da Amazon. Ha fatto il giro del pianeta, ma soprattutto ci ha aperto un mondo. Ha squarciato il velo del nostro consumismo digitale irresponsabile. Il problema non è che cambiamo un televisore ogni cinque anni, un computer ogni tre e un telefonino anche prima. Il problema è dove finisce questa montagna di dispositivi inutilizzati. Qualcuno ha calcolato che solo i device venduti da Apple fino all’inizio del 2013, impilati uno sopra l’altro, farebbero una torre di 6700 chilometri (la Stazione Spaziale orbita a 370 chilometri da terra), e se invece fossero un serpente arriverebbe da Oslo a Mumbai. Così, mentre le multinazionali digitali hanno avviato programmi di recupero e riciclo (At&T è entrata nel Guiness dei primati arrivando a riciclare più di 50mila telefonini in una settimana), si è scoperto che Agbogbloshie non era affatto un caso isolato. Era impossibile che lo fosse. E che la Cina aveva trasformato in industria dei veleni quello che nell’Africa centrale era spontaneismo suicida.
Segnatevi questo nome: Guyiu, nella provincia di Guandong. Qui c’erano quattro villaggi, una volta: oggi è il più grande cimitero elettronico del mondo. Non è facile avere informazioni ufficiali, le autorità cinesi ostacolano chi va lì in cerca di scandali, ma per esempio nel 2005 alla discarica di Guyiu lavoravano più di 60mila persone, per 17 centesimi l’ora, 16 ore al giorno. Obiettivo, recuperare i metalli pregiati. Già nel 2001 gli attivisti del Basel Action Network hanno documentato cosa accadeva a Guyiu. Exporting Harms era il titolo del film, un titolo che dice già tutto del paradosso dei nostri tempi: gran parte degli oggetti elettronici che usiamo vengono prodotti in Cina (compresi gli iPhone, per dire) e poi quando li buttiamo vengono ricomprati come rifiuti pregiati dalla Cina stessa e trattati a Guyiu, dove a un certo punto il sindaco ha dovuto ordinare la chiusura di oltre 800 forni a carbone per incenerire l’e-waste perché il livello di diossina nell’aria stava letteralmente ammazzando la popolazione. Il camion di spazzatura tecnologica che gli attivisti di Greenpeace un giorno hanno scaricato davanti al quartier generale cinese del colosso di Silicon Valley Hewlett Packard è stato il segno che la misura era colma.
Tanto rumore è servito. Le leggi sono diventate sempre più restrittive e nel mondo si sono moltiplicate storie di innovazione nell’approccio al problema. C’è una startup in India, Attero, che ha trovato un modo pulito di riciclare l’elettronica, e a in Peru Ricicla sta facendo lo stesso. Ma intanto sta cambiando la geografia del commercio di rifiuti elettronici. È appena uscito un dettagliatissimo report di uno studioso canadese, Josh Lepawsky, che documenta con dati e mappe che vanno dal 1996 al 2012 come non sia più vero l’assunto dei paesi ricchi e consumistici che spediscono la propria spazzatura tecnologica ai paesi poveri del mondo. Intanto oggi molta elettronica viene consumata nei paesi in via sviluppo. E poi le statistiche non tengono conto di due fattori: nelle statistiche del commercio di rifiuti vanno a finire anche prodotti nuovi, perfettamente funzionanti ma fuori garanzia o non più alla moda, e tutti quei prodotti che in misura crescente vengono riparati e riutilizzati secondo la filosofia del repair, reuse che sta crescendo un po’ ovunque.
E Isaiah Atta? Questa è la parte più bella della storia. Il lieto fine. Allora, è successo questo. Il 18 settembre scorso Isaac Brown ha lanciato una campagna di crowdfunding sul sito indiegogo per trovare i soldi per mandare Isaiah a scuola senza avvelenarsi nella discarica. In 24 ore sono stati donati i soldi per coprire le spese di due anni di scuola: 1400 dollari. Su vimeo potete vedere un breve video, girato credo con un telefonino, in cui un bel ragazzino ghanese che ormai ha 18 anni, ci guarda negli occhi e ripete: «Thank you, thank you all». Ma siamo noi, Isaiah, che ti ringraziamo, perché ci hai aiutato a rialzarci e scappare dal cimitero elettronico globale che stavamo edificando.

LE REGOLE NUOVE IN EUROPA
Dal 2016 ciascuno Stato dell’Unione Europea dovrebbe riciclare 45 tonnellate di rifiuti elettronici per ogni 100 di prodotti nuovi venduti nei tre anni precedenti. Dal 2019 l’obiettivo minimo diventa 65 tonnellate. La nuova regola, approvata nel 2012, aggiorna le direttive WEEE (Waste Electronical and Electric Equipment) del 2003, che per la prima volta avevano tentato di porre un freno al fenomeno (con risultati diversi da Stato a Stato: l’Italia rispetto agli altri non si è comportata male). Una delle maggiori novità è che i negozi di elettronica saranno obbligati a prendere in carico piccoli oggetti da rottamare, come i telefonini, anche se non se ne vuole comprare uno nuovo, mentre le aziende che producono elettrodomestici devono ritirare il frigorifero o la lavatrice non più in uso. Entro il 2014 la direttiva deve essere approvata dagli Stati europei ma c’è una eccezione rilevante: per i dieci Stati dell’ex blocco comunista che hanno aderito alla UE tra il 2004 e il 2007, il termine per raggiungere gli obiettivi è rinviato al 2021.

Riccardo Luna, D di Repubblica 19/4/2014