Fabio Licari, La Gazzetta dello Sport 24/4/2014, 24 aprile 2014
L’ARTE DEL CATENACCIO
Insorgono i puristi: ma quello di Mourinho non è catenaccio, il catenaccio è un’altra cosa. E siamo tutti d’accordo se intendiamo la transizione dal «sistema» con tre difensori (il WM) al «verrou» ideato da Karl Rappan negli anni 30. Il tecnico austriaco del Servette arretrò un centrocampista centrale senza compiti fissi di marcatura, pronto a raddoppiare e a diventare, in breve, il libero di un reparto a quattro (per di più protetto da una mediana tutta dietro la linea del pallone). Ma ormai catenaccio – parola che a qualcuno suscita brividi di sdegno – è un’espressione un po’ gergale un po’ giornalistica per definire un’attitudine prettamente difensiva. Senza per questo attribuirle un significato negativo: chi l’ha detto che soltanto attaccare è bello?
Mou, di sicuro, no. Quello che il portoghese ha fatto a Madrid – e non è detto sia una genialata, perché lo 0-0 è il più bastardo dei risultati in prospettiva gara di ritorno in casa – è all’incirca quello che aveva fatto Simeone con il Barcellona. Quando sai che sei inferiore (e l’Atletico è inferiore al Barça) ricorrere alla tattica è un metodo democratico per colmare il gap tecnico. Se l’altro ci casca, problemi suoi. Tra Chelsea e Atletico questa differenza non c’è, però Mou è un pragmatico che studia: ha rivisto tutti gli errori di Martino, la libertà eccessiva concessa alla mediana e a Diego Costa, ed è intervenuto a suo modo. Chiudendo cioè ogni minimo spazio di manovra al portatore di palla (nelle zone pericolose) e a chi ne aspettava gli appoggi (impedendogli di ragionare). Col risultato di obbligare gli spagnoli a cross affrettati, imprecisi e alti, preda di Terry, e senza mai andare nel panico.
Con il catenaccio si vince anche. Helenio Herrera e Nereo Rocco hanno sublimato la versione italiana del «verrou» con Inter e Milan conquistando successi internazionali negli anni 60. Non sono stati i primi, se è vero che già Foni con i nerazzurri e Viani con la Salernitana, per fare due nomi, avevano impostato sistemi protetti. Se poi quello di Herrera, come scrive Mario Sconcerti, è un moderno 4-2-3-1, il regista è Suarez e gli esterni Jair e Corso, beh, parliamo di un catenaccio piuttosto raffinato. Che, come scrisse Massimo Gramellini prima del Mondiale nippocoreano, è un po’ il simbolo di una tradizione culturale italiana della quale non vergognarsi, a cominciare dalle guerre puniche: quando Roma perse la prima guerra con Cartagine licenziò Varrone (Sacchi), che s’era lanciato all’assalto scriteriato di Annibale, e assunse Trapattoni (Quinto Fabio Massimo) il quale, armato di santa pazienza temporeggiatrice, ebbe la meglio. Saranno anche teorie divertenti da scrittore, ma fanno riflettere.
E a proposito di Sacchi, comunque l’ultimo rivoluzionario del calcio italiano: di lui il professor Scoglio, altro amante dei paradossi, disse che praticava lo stesso il catenaccio, solo più alto, perché avanzava la linea dei difensori avvicinandola – squadra corta – a quella dei mediani. E Trapattoni? E Bearzot? Di sicuro l’anima del catenaccio è in loro, ma si evolve in un meno dogmatico calcio all’italiana, con almeno due difensori a uomo, il libero e un centrocampo che può anche marcare a zona. Se poi Trap e Bearzot, i più vincenti della storia con Pozzo, Lippi, Sacchi e Capello, schierano attacchi con Rossi, Platini e Boniek, oppure Rossi, Graziani, Conti e Antognoni, meglio mettersi d’accordo sul significato vero di catenaccio. Intanto così abbiamo vinto il Mondiale, dato spettacolo nel ‘78 e la Juve s’è presa tutto.
Lo stesso Mou offrì la Champions 2010 all’Inter grazie a una formula difensiva tipo Madrid, se non più radicale, contro Barcellona e Chelsea. Barricate basse, Messi e soci asfissiati, e ripartenze, quest’ultimo aspetto però mancato al Calderon: con un Willian meno prudente, e magari un centravanti meno imbolsito di Torres, metti Drogba, l’Atletico forse non l’avrebbe sfangata. Un gran catenaccio, e appunto Drogba: così Di Matteo vinse la Champions 2012 contro il Bayern. Catenaccio era il 5-3-2 di Bilardo con l’Argentina ’86: poi aggiungi Maradona e sollevi la coppa. Mou non ha Dieguito e neanche Hazard, «10» infortunato: i suoi Jair e Corso si chiamano Willian e, con tutto il rispetto, Ramires, uno che lavora per tre ma al quale non si può chiedere anche il gol. Anche Hiddink pratica spesso un catenaccio-ragnatela (ricordate l’Australia?). E come vinse l’Euro 2004 la Grecia di Rehhagel?
Non fraintendeteci, non è il caso di celebrare il catenaccio (non lo sarebbe di un attacco fine a se stesso e, in tutta probabilità, perdente). È solo che Mou l’antipatico, Mou l’«italiano», per altri 90’ ha costretto il rivale di turno a sfiancarsi in un gran gioco di alfieri e pedine senza che il suo re fosse mai in pericolo. Una lezione di strategia. Zeman diceva: «Non mi piace chi distrugge gioco». Però anche Boskov sosteneva che «rigore è quando arbitro fischia», e quindi «coppa di chi la solleva» più o meno. Se difesa non è sinonimo di distruzione, si può anche fare, no?