Cinzia Leone, Libero 24/4/2014, 24 aprile 2014
LA MANO DELL’ARTISTA
A regolare la pressione dell’archetto sulle corde del violino, a saggiare la superficie del blocco di pietra o ad accarezzare la tela con il pennello è lei: la mano. Non sempre obbediente, conserva un suo grado di sapere indipendente e impone la sua autonoma identità.
Per Michel Duchamp e i suoi ready-made, cose trovate e «fatte» dalle mani di altri, l’artista non ha mai avuto mani, ma solo mente. Teoria impossibile per un pianista o un violinista le cui mani sono forma della mente e protesi virtuose da adattare allo strumento fino alla metamorfosi. Pianisti e violinisti si allenano fino alla tortura. Schumann usava un apparecchio per rinforzare il secondo e terzo dito, meno agili degli altri, e con un contrappeso fissato al soffitto potenziava il quarto. Paganini aveva mani e articolazioni eccezionali e braccia più lunghe e leggere della norma, che gli permisero una virtuosità acrobatica. Per Mozart «tre cose sono necessarie a un buon musicista: la testa, il cuore e la punta delle dita». Le stesse indispensabili a Renoir che, costretto alla sedia a rotelle da un’artrite reumatoide, terminò Le bagnanti con i pennelli legati alle dita ormai rattrappite.
Tullio Pericoli, illustratore, pittore e scenografo, alla mano dell’artista, ora docile ora ribelle e comunque pensante, dedica il suo ultimo libro-intervista, Pensieri della mano. Da una conversazione con Domenico Rosa, appena sbarcato in libreria per Adelphi (pp. 128, euro 13). «A volte guardandola mi chiedo: la mia mano pensa realmente? È consapevole di quello che sta creando?». Quando la punta della matita è a un centimetro dal foglio quella che Paolo Conte e i ballerini di tango chiamano hesitation si decide chi dei due è il padrone. E quando la linea avanza in un territorio che mente e mano conoscono in modo diverso e non sempre sinergico, possono nascere i conflitti. Sarà la mano vagabonda a sbagliare strada scoprendo un nuovo stile o ripeterà d’istinto i suoi automatismi? Sarà la mente a correggerla vigile o ad assecondarla pigramente? Il segno parte con un mix d’istinto e volontà. E il punto d’arrivo? «L’atto del lasciare è più lungo, ha più modulazioni, e nel modo di abbandonare il foglio la linea esprime il proprio carattere: l’atto della morte è più importante di quello della nascita».
Aperta parentesi. Ne parla con dovizia di particolari narrativi anche James Hall nel suo L’autoritratto. Una storia culturale (Einaudi, pp. 288, euro 28): le suddette suggestioni valgono, secondo lo storico dell’arte inglese, soprattutto per gli autoritratti-confessione di Tiziano,
Michelangelo, Vermeer o Ensor. Chiusa parentesi.
Si diceva, lo schizzo. Nello schizzo c’è più spontaneità, qualcosa che nella versione definitiva va perduto. Di Pericoli sono pubblicati solo disegni finiti. Forse perché negli schizzi è la mano, e non la mente con i suoi diktat e i tabù, a governare il gioco? «Gli schizzi per me sono abbozzi, fasi di passaggio, tappe. Anche gli scrittori, tranne casi rari, non pubblicano le prime o le seconde stesure dei loro romanzi. Forse le tengono da parte per i filologi che verranno».
Pensieri della mano è una lunga seduta psicoanalitica. Non distante dall’Io e lui di Moravia, descrive una compagna di strada altrettanto autonoma ma meno inaffidabile. Incalzato dalle domande di Domenico Rosa, giornalista e disegnatore del Sole24ore, Pericoli cita Kafka, che Nella colonia penale descrive una condanna a morte eseguita con una macchina che incide con un ago meccanico sul corpo del condannato il testo del comandamento trasgredito. Racconta del pittore Lucien Freud e della sua estenuante ricerca di un pennello con una setola resistente che si conclude puntando sui robusti peli di maiale. Ci sarebbe da ricamare sul nipote dell’inventore della psicoanalisi che sceglie di dipingere con i peli dell’animale “impuro” per eccellenza secondo le regole della fede ebraica del celebre nonno.
Famoso per i suoi ritratti, per anni Pericoli, in coppia con Emanuele Pirella, inventò la celebre rubrica satirica «Tutti da Fulvia sabato sera», che puntava il dito sui topoi della politica, schiaffeggiava le Madame Verdurin italiane e tirava pugni alla gauche caviar. Dopo la scomparsa di Pirella, la mano dell’artista, privata della sua voce, ha continuato a graffiare. Per l’artista «la pittura ha più frecce nel suo arco della letteratura», eppure negli ultimi anni Pericoli, non senza una venatura di melanconia, ha cominciato a interrogarsi sul mestiere di artista anche con le parole. Ne I paesaggi (Adelphi) racconta, in un film di parole e immagini, cosa nel paesaggio abbia sempre cercato e che cosa, almeno a volte, abbia trovato. E con Pensieri della mano esamina l’imprevedibile e irrequieta sapienza dalla mano dell’artista. Se Van Gogh sosteneva di dipingere come i contadini arano un campo, Pericoli, nato nelle Marche, si racconta come un artista che «viene da una terra di contadini graffiata dall’uomo», un paesaggio deposito d’immagini sedimentate a cui attingere all’infinito.
Pericoli sente il bisogno di parlare di quello che verrà quando l’inchiostro sarà asciutto e i colori fuori dai tubetti e di cosa ne sarà della mano dell’artista quando il virtuale le ruberà la sua vorace indipendenza. «Forse avremo immagini fredde, vitree, prive di quel conduttore calorico che è la mano». Forse.