Sergio Romano, Corriere della Sera 24/4/2014, 24 aprile 2014
L’EUROPA E I VECCHI IMPERI I TEMPI DELLA DECOLONIZZAZIONE
A fronte del sempre più crescente arrivo di immigrati sulle nostre coste il ministro Angelino Alfano ha dichiarato che il fenomeno degli sbarchi è mutato nella sua qualità: Fino a ieri arrivavano in cerca di
lavoro, oggi di libertà. La affermazione ben rispecchia quello che nessuno vuole ammettere: il fallimento della decolonizzazione. Con meno supponenza e ipocrisia dovremmo iniziare a parlare.
Mario Taliani
Caro Taliani,
Sul «tramonto degli imperi coloniali» è apparso ora, presso le edizioni Studium di Roma, un grosso volume di Alessandro Duce, storico dell’Università di Parma. L’opera copre il periodo dal 1945 al 2013 e offre quindi risposte ai sentimenti espressi nella sua lettera. A me sembra che il periodo della decolonizzazione comprenda almeno due grandi fasi. Nella prima gli imperi coloniali, duramente provati dalla Seconda guerra mondiale, devono rinunciare, volenti o nolenti, a ciò che non sono più grado di conservare e amministrare. L’Italia perde tutto, salvo l’amministrazione fiduciaria della Somalia per un decennio. I Paesi Bassi tentano di tornare in Indonesia, ma non riescono a eliminare i movimenti nazionalisti lasciati dall’occupazione giapponese. La Gran Bretagna concede l’indipendenza ai suoi possedimenti indiani nel 1947 e sovrintende malamente alla nascita nel subcontinente di due Stati sovrani: India e Pakistan. Un anno dopo, decide di fare altrettanto con la Palestina mandataria dove la conflittualità fra ebrei e arabi espone le sue truppe a rischi che il governo laburista non intende accettare. La Francia ha già perduto di fatto le sue «perle arabe» (Siria e Libano), ma non intende rinunciare ai protettorati indocinesi e cerca di resistere ai movimenti comunisti del Vietnam settentrionale. Non vi riesce e nel giro di pochi anni abbandona non soltanto l’Indocina, ma anche la Tunisia e il Marocco.
Né la Francia né la Gran Bretagna, tuttavia, intendono rinunciare a ciò che entrambe, anche se per ragioni diverse, considerano «vitale»: il Canale di Suez e quindi l’Egitto, nel caso della prima, l’Algeria in quello della seconda. Il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez nel 1956 costringe i due Paesi, anche se in tempi diversi, a modificare la loro politica coloniale. Comincia così la seconda fase. In Gran Bretagna il primo ministro Harold Macmillan è convinto che il colonialismo tradizionale sia defunto e annuncia una politica di decolonizzazione che verrà realizzata, a passo di carica, negli anni Sessanta e Settanta. La Francia fa una battaglia di retroguardia in Algeria, dove vive un milione di coloni europei, ma il generale De Gaulle, quattro anni dopo la conquista del potere, si accorge che il conflitto sta prosciugando le energie francesi e gli impedisce di fare una politica internazionale conforme alle sue ambizioni. Il Belgio, dal canto suo, non può che adeguarsi alla politica delle potenze maggiori e concede l’indipendenza al Congo nel 1960. Il Portogallo riuscirà a indugiare ancora per qualche anno, ma le sue colonie avranno la stessa sorte.
Beninteso, caro Taliani, nelle rinunce di tutte le potenze coloniali si nasconde la convinzione che le antiche colonie, ormai indipendenti, continueranno ad avere bisogno dei loro vecchi padroni. La Gran Bretagna cerca di valorizzare il Commonwealth, la Francia si serve di France-Afrique, una rete di relazioni gestita direttamente dal presidente della Repubblica. Questi legami presentano qualche vantaggio e consentono alla Francia, per esempio, di intervenire nella politica estera delle sue ex colonie. Ma il controllo a distanza, senza gli strumenti del potere, è stato molto più difficile di quanto avessero immaginato. Aggiungo che l’era del colonialismo fu possibile perché i governi poterono contare sulla convinzione, allora molto diffusa nelle opinioni pubbliche, che l’Europa avesse il diritto e il dovere di portare la civiltà nel mondo, un sentimento che ha perduto buona parte della sua autorità morale. Ma con quei Paesi abbiamo contratto un debito che non possiamo onorare chiudendo le nostre porte a quelli, fra i loro cittadini, che cercano un lavoro e un asilo.