Massimo Gaggi, Corriere della Sera 24/4/2014, 24 aprile 2014
LA RICCHEZZA NON ABITA PIÙ QUI IL DECLINO DELLA CLASSE MEDIA USA
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Dell’esposizione universale del 1964 a New York (la celebrazione del cinquantesimo anniversario è proprio di questi giorni) rimangono solo il mappamondo d’acciaio del Corona Park, i resti arrugginiti del padiglione Usa e la nostalgia per un’era di grande ottimismo e di prorompente crescita della ricchezza di una società convinta che, volando sulle ali delle nuove tecnologie (erano gli anni in cui l’America si preparava a mandare l’uomo sulla Luna), nessun traguardo sarebbe stato troppo ambizioso.
Mezzo secolo dopo gli Stati Uniti sono ancora un Paese molto ricco e all’avanguardia della tecnica, ma di quelle illusioni non c’è più traccia. Negli ultimi decenni il ceto medio ha perso terreno: un fenomeno che l’America ha condiviso con quasi tutto il resto dell’Occidente industrializzato, mentre il trasferimento della ricchezza verso l’Asia ha fatto nascere una nuova «middle class» forte di centinaia di milioni di cittadini in Paesi come la Cina e l’India. Colpa della «grande recessione» iniziata nel 2008, hanno pensato a lungo gli americani. Ma alcuni studi recenti, a partire da una documentatissima indagine pubblicata ieri dal New York Times che l’ha promossa insieme al Lis, un istituto di ricerche che ha sede in Lussemburgo, mettono in luce che negli Stati Uniti il deterioramento del ceto medio e l’impoverimento della fascia sociale dei meno abbienti sono più marcati che altrove nonostante che in America la ripresa economica sia arrivata prima e abbia dimensioni più consistenti rispetto a un’Europa in recessione fino a ieri e al Giappone della stagnazione senza fine.
Perché? Effetti della globalizzazione e di politiche fiscali che, concepite per incentivare la produzione di maggiore ricchezza, hanno inevitabilmente finito per premiare soprattutto i più ricchi: per molti anni la crescita delle diseguaglianze è stata spiegata così, come un male in qualche modo necessario. Una situazione accettabile finché funzionava l’«ascensore sociale» che dava anche agli ultimi la possibilità di spezzare le catene della povertà studiando e lavorando sodo. Ma da tempo i democratici Usa si sono accorti che il vecchio «mantra» kennediano – puntare sempre e comunque alla crescita come cura di tutti i mali perché la marea che sale solleva tutte le barche, quella a remi del povero come il panfilo del ricco — non funziona più. E, infatti, Obama ora vorrebbe concentrare la fase finale della sua presidenza proprio sulla lotta alle eccessive diseguaglianze: il tema che sarà al centro della campagna elettorale del 2016, quella dalla quale verrà fuori il suo successore.
I numeri pubblicati dal New York Times sulla base del lavoro di The Upshot , il suo nuovo team di ricerca giornalistica basata sui dati, spiegano perché: le famiglie più povere — quelle nell’ultima fascia di reddito, il 20 per cento più basso — negli Stati Uniti ormai guadagnano molto meno che in Canada e in Nord Europa, dall’Olanda ai Paesi scandinavi. Gli indigenti americani sono ancora avanti rispetto a quelli di Paesi in profonda crisi come Portogallo, Grecia e Spagna, ma con margini di differenza molto ridotti rispetto al passato. Fatto forse ancor più preoccupante, perché può avere un impatto negativo sulla tenuta democratica della società, è la perdita di terreno della classe media americana anche rispetto a quelle degli altri Paesi industrializzati. Da un punto di vista statistico il fenomeno era stato fin qui mascherato dal fatto che i numeri complessivi del reddito pro capite pongono ancora gli Stati Uniti in cima alla classifica dei Paesi più ricchi. Ma il dato nazionale è distorto dalla rapidissima crescita di patrimonio e guadagni del 5 per cento più ricco della popolazione. La realtà è che nel 2010 il reddito medio di un cittadino americano era di 18.700 dollari l’anno, vale a dire circa 75 mila per una famiglia di quattro persone: il 20 per cento in più rispetto al 1980, ma un livello invariato rispetto al 2000, mentre nell’ultimo decennio il reddito di inglesi e canadesi è cresciuto del 20 per cento e quello degli olandesi del 14 (e il reddito esclusivamente della classe media canadese ora, secondo l’inchiesta, sarebbe per la prima volta più alto che negli Usa).
La gente questa percezione l’aveva da tempo: già un sondaggio del 2012 fatto dal Pew Research Center indicava che il gap nella distribuzione del benessere era il problema più sentito dagli americani col 76 per cento degli intervistati che denunciavano: «I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri«. Un problema esacerbato dall’automazione e dall’informatizzazione di molte procedure che sta eliminando dal mercato del lavoro intere categorie di impieghi. Oggi questi nuovi dati, basati su ricerche durate 35 anni, rendono più chiara la dinamica di una distribuzione del reddito sempre più polarizzata negli ultimi decenni: è la grande sfida che i politici sono chiamati ad affrontare nelle democrazie industriali.
E qui, paradossalmente, l’America, benché più ricca e in crescita, rischia di essere più esposta degli altri: pesa la debolezza dei suoi ammortizzatori sociali, ma, soprattutto, qui globalizzazione e automazione hanno un impatto superiore al resto del mondo. Vale per il molto che c’è di bene in questi processi, ma anche per il male di una distribuzione della ricchezza sempre più sbilanciata a favore di una piccola elite.