Rocco Cotroneo, Corriere della Sera 24/4/2014, 24 aprile 2014
L’ESECUZIONE DEL BALLERINO CHE INCENDIA COPACABANA
RIO DE JANEIRO — Nella favela Pavão c’è da qualche anno un hotel boutique da 200 euro a notte, in genere clientela gay, vari bed and breakfast e un comodo ascensore per evitare i vicoli in salita. I pali della luce sono coperti di bigliettini, si affittano stanze per i Mondiali: vista assoluta sull’oceano. Dieci minuti a piedi e si tocca la sabbia di Copacabana, o si cena con la brezza del mare. E’ lo stesso posto dove martedì la polizia ha ammazzato — e non si sa perché — Douglas Rafael da Silva, 26 anni, ballerino e piccola celebrità locale, perché lavora in un programma della tv Globo . Una esecuzione come usava un tempo a Rio: botte, calci di stivali in faccia e il corpo abbandonato da qualche parte. Stavolta addirittura in un asilo nido. Appena qualcuno se n’è accorto, è piombato sul posto uno squadrone di poliziotti: e giù minacce per non far vedere o far saper nulla. Anche le ore successive hanno avuto un sapore antico: gli abitanti della favela in rivolta per l’omicidio, barricate e intense sparatorie che si sentivano ovunque (non esiste un abitante di Copacabana che non sappia distinguere un botto da un colpo di pistola). Poi un secondo ragazzo colpito a morte da una pallottola vagante. Infine i poveri che «calano» sull’asfalto, come si dice qui, e protestano bloccando la vita della città, gli autobus, la stazione del metrò, fanno abbassare le saracinesche. Dai palazzi borghesi — con la cautela di non usare le finestre affacciate sul retro, quelle in linea di tiro — parte invece una raffica di tweet: è tornata la guerra a Copa, non uscite di casa. All’hotel Miramar, sul lungomare, turisti increduli barricati nella hall guardano cosa sta succedendo là fuori, ma in tv.
Dura vigilia di San Giorgio, il patrono di Rio de Janeiro, martire cristiano e Ogum nel sincretismo afro-brasiliano, il signore del ferro. Se la violenza torna a Copacabana, piuttosto che in un sobborgo lontano della grande metropoli, tutto si moltiplica per cento. Le colpe della polizia, l’imbarazzo delle autorità, la ripercussione nel mondo. In questo quartiere ufficialmente vige da anni la pace. Pavão, Pavãozinho, Cantagalo, Babilonia sono i nomi delle comunità (il politicamente corretto per dire favela) dalle quali lo Stato ha espulso i trafficanti di droga e armi, che prima dominavano le colline sulla spiaggia urbana più famosa del mondo. Luoghi già off-limits ma che i turisti ormai frequentano, e alcuni sono anche disposti a spendere parecchio per raccontare di aver passato la vacanza in una favela.
Le autorità negano che i narcos abbiano ripreso il controllo delle colline, promettono spiegazioni e una caccia ai colpevoli. Nel Pavão esiste un commissariato di pace, come in altre decine di favelas di Rio liberate negli ultimi cinque anni. Ma gli abitanti accusano proprio loro, i poliziotti «puliti» voluti dagli ultimi governi, di aver ammazzato il ballerino Douglas dopo un diverbio a causa di una moto. Sostengono che la pax sia in realtà una occupazione. Come in tanti, nel Brasile di oggi, i poveri del Pavão non sono disposti ad accettare cose che prima erano considerate ineluttabili. Come i pessimi servizi pubblici, le inefficienze e tantomeno le esecuzioni della polizia. Quello di Copacabana è l’ultimo di una serie di episodi nelle ultime settimane. Proprio sul più bello la città rischia di tornare indietro di anni, cancellando successi e progressi.
L’orologio sulla spiaggia segna che mancano appena 49 giorni per i Mondiali e 835 per le Olimpiadi di Rio. Il primo evento incombe, ma nella città del Maracanã, di Garrincha e di Zico quasi non se ne vede traccia. Nella favela, così come in tutta la città, era tradizione in vista della Coppa del Mondo dipingere l’asfalto di giallo e verde, appendere le bandierine colorate tra un palazzo e l’altro. Su molti muri si scorgono ancora le caricature sbiadite degli eroi del 2002 o addirittura del ‘70, quando c’era Pelé. Quest’anno nulla. Nei baretti gli schermi da decine di pollici sono pronti, ma si parla d’altro. Della maledizione del Mondiale, per esempio. Forse il Brasile lo vincerà (deve, soprattutto) ma se fosse già passato sarebbe meglio. In città finora ha portato caos nel traffico, aumenti sconsiderati dei prezzi e la sensazione che non lascerà nulla per il dopo, per la gente. Avevano promesso corsie di autobus, stazioni del metrò, l’aeroporto nuovo: si lavora a tutto, ma nulla finirà per tempo. Le notizie sul ritardo del Brasile nella preparazione all’evento, lo spreco di denaro, gli effetti collaterali fanno il giro del mondo e ritornano a casa. Provocando fastidio e scetticismo in tutte le fasce sociali. In questo il Brasile non è più la patria delle diseguaglianze, sopra e sotto il cielo di Copacabana.