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 2014  aprile 20 Domenica calendario

TUTTI I MODI IN CUI LEGGIAMO


Si legge con gli occhi . Quello che fanno gli occhi mentre si legge è di una complessità che supera la mia competenza e insieme l’ambito di questo scritto. Dalla copiosa vasta letteratura consacrata all’argomento dall’inizio del secolo (Yarbus, Stark, eccetera), si può quanto meno ricavare questa certezza elementare, ma fondamentale: gli occhi non leggono né le lettere, né le parole, né le righe le une dopo le altre, ma procedono a scatti e fissazioni, esplorando nello stesso istante la totalità del campo di lettura con una accanita ridondanza: percorsi ininterrotti punteggiati di arresti impercettibili come se, per scoprire quello che cerca, l’occhio dovesse esplorare la pagina con un’agitazione intensa, non in maniera regolare , come un ricevitore di televisione (e il termine "esplorazione" potrebbe lasciarlo pensare), ma in modo aleatorio, disordinato, ripetitivo, o, se si preferisce, visto che siamo in piena metafora, come un piccione che becchetta per terra alla ricerca di qualche briciola di pane. Questa immagine è evidentemente un po’ sospetta, ma, ciò nondimeno, mi sembra caratteristica, e non esito a trarne qualcosa che potrebbe essere il punto di partenza di una teoria del testo: leggere è prima di tutto estrarre da un testo degli elementi significanti, delle briciole di senso, qualcosa come delle parole chiave che si scoprono, che si mettono a confronto, che si ritrovano. È verificando la loro presenza che si sa di essere nel testo, che lo si identifica, lo si autentica; queste parole chiave possono essere certe parole (nei romanzi polizieschi, ad esempio, e ancor più nelle produzioni erotiche o che si pretendono tali), ma possono essere anche certe sonorità (rime), una certa impaginazione, certe particolari costruzioni delle frasi, certe particolarità tipografiche (per esempio, il corsivo di alcune parole in troppo numerosi testi contemporanei di narrativa, di critica, o di fantacritica), e addirittura intere sequenze narrative (si veda Jacques Duchateau, Lecture marginale de Peter Cheney, in La Littérature potentielle, Gallimard, «Idées», Paris 1973).
Si tratta in certo qual modo di ciò che i teorici chiamano un riconoscimento di forma: la ricerca di determinati tratti pertinenti che consentono di passare da quella successione lineare di lettere, di spazi e di segni d’interpunzione, che è all’origine un testo, a quello che sarà il suo senso quando vi si saranno individuati, ai diversi stadi della lettura, una coerenza sintattica, un’organizzazione narrativa, e quello che chiamiamo uno "stile".
Oltre ad alcuni esempi classici ed elementari, vale a dire lessicali (leggere è sapere subito che la parola couvent designa sia quello che fanno le galline una volta deposto l’uovo, sia un convento; oppure che i Fils Aymon non sono dei fili per cucire), non so attraverso quali protocolli sperimentali si potrebbe studiare questo lavoro di riconoscimento; per parte mia ne ho solo una conferma negativa: il senso di una profonda frustrazione che molto a lungo ho provato leggendo dei romanzi russi (… vedovo di Anna Mikhaïlovna Droubetskoi, Boris Timoféitch Ismaïlov chiese la mano di Katérina Lvovna Borissitch che gli preferì Ivan Mikhaïlov Vassiliev...) o quando, a quindici anni, ho voluto decifrare i passaggi considerati spinti dei Bijoux indiscrets («Saepe turgentem spumantemque admovit oripriapum, simulque appressis ad labia labiis, fellatrice me lingua perfricuit... »).
Una qualche arte del testo potrebbe basarsi sul gioco tra il prevedibile e l’imprevedibile, tra l’attesa e la delusione, la connivenza e la sorpresa: la presenza di costruzioni accuratamente ricercate disseminate con noncuranza di espressioni sottilmente triviali o francamente gergali (Claudel, Lacan...) potrebbe fornirne un esempio; o, meglio: «Mais j’y touille, vous flotterez bien quelque chose: une cloque de zoulou, deux doigts de loto?» (Jean Tardieu, Un mot pour un autre) o le metamorfosi di Bolucra (Boulingra, Brelugat, Brolugat, Botugat, Botrulat, Brodugat, Bretoga, Butaga, Brelogat, Bretouilla, Bodrugat, eccetera) in Le Dimanche de la vie.
Una qualche arte della lettura – e non solo la lettura di un testo, ma quella che chiamiamo la lettura di un quadro, o la lettura di una città – potrebbe consistere nel leggere di lato, nel portare sul testo uno sguardo obliquo (ma già qui non si tratta più della lettura al suo livello fisiologico: come si potrebbe infatti insegnare ai muscoli extra-oculari a "leggere diversamente"?).
LA VOCE, LE LABBRA
Muovere le labbra leggendo è considerato volgare. Ci hanno insegnato a leggere facendoci leggere ad alta voce; poi abbiamo dovuto disimparare quella che ci hanno detto essere una cattiva abitudine, probabilmente perché rivela troppo l’applicazione, lo sforzo.
Ciò non toglie che, quando leggiamo, i muscoli crico-aritenoidiani e crico-tiroidei, tensori e costrittori dellecorde vocali e della glottide, siano attivi.
La lettura resta inseparabile dalle mimiche labiali e dalle attività vocali che l’accompagnano (vi sono testi che dovrebbero essere solo mormorati o sussurrati, altri che bisognerebbe poter urlare o scandire con forza).
LE MANI
Non sono solo i ciechi a trovarsi nell’impossibilità di leggere. Nella stessa impossibilità si trovano anche coloro che, privi delle mani o delle braccia, non possono voltare le pagine.
Le mani non servono soltanto a girare le pagine. La diffusione dei libri rifilati con una taglierina priva il lettore contemporaneo di due grandi piaceri: quello di tagliare le pagine – e qui, se fossi Sterne, verrebbe a inserirsi un intero capitolo di elogio dei tagliacarte, dal tagliacarte di cartone, omaggio dei librai ogni volta che si comprava un libro, fino al tagliacarte di bambù, di pietra levigata, di acciaio, passando per quelli a forma di scimitarra – Tunisia, Algeria, Marocco –, di spada da matador – Spagna –, di sciabola da samurai – Giappone – e per quegli orrori racchiusi in guaine di similpelle che costituiscono, insieme a diversi oggetti della stessa risma – forbici, portapenne, portamatite, calendari universali, promemoria, sottomano con carta assorbente incorporata, eccetera –, il cosiddetto "completo da scrittoio"; e quello, ancora più grande, di cominciare a leggere un libro senza averne tagliate le pagine. Ci ricordiamo (e non è poi così lontano) di quando i libri erano piegati in modo tale che le pagine da tagliare si alternavano così: otto pagine di cui bisognava tagliare, prima il bordo superiore, e poi, a due riprese, quello laterale. Le prime otto si potevano leggere quasi interamente senza tagliacarte; delle altre otto, si potevano leggere, ovviamente, la prima e l’ultima e, sollevando un po’, la quarta e la quinta. Ma niente di più. Vi erano nel testo delle lacune che riservavano sorprese e generavano attese.
POSTURE
La posturologia della lettura è evidentemente troppo legata alle condizioni ambientali (che prenderò in esame tra un momento) perché la si possa considerare in quanto tale. Eppure sarebbe una ricerca affascinante, intrinsecamente collegata a una sociologia del corpo, e stupisce che nessun sociologo o antropologo si sia preoccupato di mettervi mano (nonostante il progetto proposto da Marcel Mauss che ho già evocato all’inizio di questo breve saggio). In assenza di uno studio sistematico, dobbiamo limitarci ad abbozzare una enumerazione sommaria:
– leggere in piedi (è il modo migliore per consultare un dizionario);
– leggere seduti, ma ci sono così tanti modi di stare seduti: con i piedi che toccano il pavimento, con i piedi più in alto della sedia, con il corpo rovesciato all’indietro (poltrona, divano), con i gomiti appoggiati su un tavolo, eccetera;
– leggere distesi; distesi supini; bocconi; sul fianco, eccetera;
– leggere in ginocchio (bambini che sfogliano un libro illustrato; i giapponesi?);
– leggere accovacciati (Marcel Mauss: «La posizione accovacciata è, a mio parere, una posizione interessante che si può senz’altro far prendere a un bambino. L’errore più grande è proibirgliela. L’intera umanità, tranne le nostre società, l’ha conservata»);
– leggere camminando. Viene in mente soprattutto il parroco che prende il fresco leggendo il breviario. Ma c’è anche il turista che si aggira in una città straniera con una pianta in mano, o che passa davanti ai quadri di un museo leggendo la descrizione che ne danno le guide. Oppure camminare nella campagna, con un libro in mano, leggendo ad alta voce. Sempre più raro, credo.

Georges Perec, Il Sole 24 Ore 20/4/2014