Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 20/4/2014, 20 aprile 2014
SE C’È ANCORA BISOGNO DEGLI USA
Quest’anno probabilmente non ci saranno più testimoni diretti al grande cimitero americano che domina la spiaggia di Omaha. Né, qualche chilometro a sud di Utah Beach, reduci in carne e ossa renderanno onore alla statua di Iron Mike, il simbolo della 101esima aviotrasportata, alle porte di St. Mère Église. Il 6 di giugno saranno 70 anni dallo sbarco in Normandia e due terzi di secolo sono abbastanza per non lasciare più superstiti e scolorire il senso politico di un’antica alleanza.
Più passa il tempo, meno l’Europa conta per l’America, e viceversa: geopoliticamente parlando, non economicamente. Le centinaia di basi e i 200mila uomini che stazionavano nel continente alla fine della Guerra fredda, entro il 2015 saranno sette e meno di 30mila. La Storia e altre vicende avevano portato a questa riorganizzazione: i tagli alla spesa del Pentagono, lo scacchiere asiatico più instabile (Corea del Nord, riarmo cinese, tensioni Cina-Giappone); un’Europa in pace e sempre meno disposta ad assecondare gli Stati Uniti: dall’invasione dell’Iraq, alle Primavere arabe e a Israele, la pensiamo sempre più diversamente. Inoltre, l’amministrazione Obama aveva incominciato a mutare visibilmente il concetto di superpotenza americana.
Questo era lo stato delle cose fino a primavera. Molto dipenderà da quando e come finirà, ma la crisi ucraina riporta l’Europa al suo recente passato, rinviando un futuro migliore. Di più: il passato imperiale zarista-sovietico che Putin pretende di resuscitare presuppone il ritorno del ruolo determinante americano in Europa.
Quando in America dominava il pensiero neocon, ai tempi di George Bush, Robert Kagan aveva scritto un articolo paragonando gli Stati Uniti a Marte e l’Europa a Venere. Quella contrapposizione piuttosto hobbesiana di "Forza e debolezza" (il titolo dell’articolo di Kagan) è stata rispolverata dai comportamenti di Vladimir Putin. Quale credito dare a un presidente che, dopo averlo smentito per settimane, finalmente ieri si è "accorto" di aver dispiegato 40mila uomini, carri armati e aerei da combattimento alla frontiera ucraina?
D’improvviso gli Stati Uniti sono tornati a essere in Europa ciò che Madeleine Albright definiva così: «Se dobbiamo usare la forza è perché siamo la nazione indispensabile». L’ex segretario di Stato di Bill Clinton non intendeva l’uso esplicito della forza, ma la capacità di minacciarla credibilmente.
Sarebbe bello poter dire che noi europei ce la caviamo da soli. Ma se con Catherine Ashton incominciamo a intravvedere le tracce di una politica estera comune, una Difesa Europea non esiste. È difficile trovare mezzi e soprattutto volontà politica quando perfino dentro la Nato nel 2012 solo tre Paesi - Gran Bretagna, Estonia e Grecia - avevano raggiunto il minimo del 2% del Pil in spese militari, richiesto dall’Alleanza atlantica ai suoi associati. In quello stesso anno, per la prima volta nella storia moderna i Paesi asiatici avevano speso per la Difesa più degli europei dell’Unione. Fride, il think-tank europeo che ha raccolto questi dati, spiegava che la ragione non andava tanto cercata nella crisi economica: per esempio il taglio degli F-35 in Italia. La causa era piuttosto «l’autocompiacimento e un fraintendimento nell’approccio all’uso della forza militare».
Gli unici europei a non compiacersi né ad aver mai escluso la necessità delle armi come deterrente sono gli ultimi arrivati: tutti i Paesi dell’Est liberati dalla caduta dell’impero sovietico. Più sono vicini alle frontiere della Russia di Putin, di Medvedev e poi ancora di Putin, più chiedono alla Nato e alla Ue fermezza e mobilitazione. Aumentando la distanza da quei confini prevalgono la comprensione delle ragioni russe e, ancor di più, la salvaguardia degli interessi economici maturati con Mosca. Vladimir Putin rende sempre più difficile capire quali europei abbiano ragione.
Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 20/4/2014