Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 20/4/2014, 20 aprile 2014
“L’ITALIA DEI MITOMANI TUTTI A CENA, SEMPRE NELLE STESSE TERRAZZE”
[Intervista a Marco Giusti] –
Passa una vecchia ossequiosa: “Ma lei è Giorgio Calabrese?” e spalle al sole, nel western paraministeriale di una gelida mattinata in zona Rai, Marco Giusti si distrae dal caffè e con il cornetto nella destra spara a salve: “Il paroliere della Vanoni? No signora, c’è un limite, quello ha trent’anni di più”. Visto di tre quarti, con cappello nero sulla testa, barba bianca e profilo incastonati nel faticoso quintale che trascina tra proiezioni e Festival, questo grossetano del ’53, buttero nei generi del nostro cinema meno celebrato, sembra ancora divertirsi. Balbetta da sempre: “Ma è andata anche peggio di oggi. È stato un problema enorme, mi ricordo di aver preparato un dottissimo saggio al liceo e di aver fatto scena muta. Fino ai 25 anni non ho quasi proferito parola. Si faccia raccontare da Lillo lo sketch del gelato. Io chiedo sempre un cono crema e no-nocciola. La nocciola non me la portano mai” e ha la giacca troppo larga di chi vive per caso. Quando si muove, con le monete nelle tasche, ritma il rumore di un salvadanaio. Nel Bar romano in cui non c’è spacciatore di catenine africano che non lo conosca: “Ecco mio padre, ciao bello” e che non sappia che qualcosa arriverà: “Tieni, però non sono bello e non sono neanche tuo padre”, il critico cinematografico di Dagospia e de Il Manifesto ripensa a Blob: “Nel 1989, quando iniziammo, eravamo a meno di 100 metri da qui. Andrea Barbato avrebbe voluto un nuovo programma, Fluff, da strutturare tra repertorio e satira. Mi sarebbe toccata una rubrica sull’autoreferenzialità ridicolmente lirica del giornalismo e della tv. Ne tenevo una simile su L’Europeo e da Il Male in giù, comunque, l’idea di classificare il peggio non era nuovissima”. Lo fu Blob, riduzione di un gigantismo che seppe muoversi tra nani e ballerine inventando a costo zero. In pochissimi giorni: “La rielaborazione del già visto, della politica e del linguaggio dei nuovi mostri divenne controinformazione” e l’esperimento: “il programma più celebrato del servizio pubblico”. “Dopo neanche una settimana” dice Giusti: “Anche grazie alle fanfare di Del Buono e Beniamino Placido” Blob “viaggiò da organismo autonomo”. Scheggia libera tra presente e passato, con qualche protagonista mancato: “Per un istante pensai di coinvolgere Sabina Guzzanti per riannodare il senso dei frammenti. Lei sarebbe stata contenta, ma capii in fretta che la realtà del giorno dopo riletta in chiave comica o grottesca non aveva bisogno di intermezzi”. Giusti giura che 25 anni dopo, ora che tutto è indistinto Blob, la spontaneità dell’orrore ha lasciato posto alla sua scientifica costruzione e l’ultima stronzata del momento è ospite fissa sul podio, anche il lampo che fu abbia smarrito la sua carica eversiva: “Fu una rivoluzione senza evoluzione, oggi sepolta dalla controrivoluzione. Nelle lunghe giornate tumulati a montare spezzoni, durante la prima stagione di Blob, i bilanci non erano previsti. Io e Ghezzi non sapevamo neanche se saremmo arrivati vivi al 2014”.
Ci siete arrivati. Vivi, ma divisi.
Enrico, che all’epoca era come un fratello, fu il primo con cui parlai dell’ipotesi di Blob. Avevamo diviso le notti universitarie a Genova e a 30 anni mi ero trasferito a Roma anche per lavorare con lui. Non ci parliamo dal ’96. Mi scrisse cinque lettere violentissime, orrende, piene di insulti. Scene brutte da matrimonio naufragato.
Le ha tenute?
Gelosamente. Da allora gli ho tolto il saluto. Per me è morto nel ’96.
Nella prefazione a “Vado l’ammazzo e torno”, il suo libro di recensioni cinematografiche per Dagospia, Carlo Freccero vagheggiava di potersi travestire da paciere.
A Carlo voglio bene, ma è uno scrupolo inutile. Non cambio idea e non sono il solo. Tutti i migliori amici di Ghezzi si sono dati alla macchia. Forse non è un caso. Secondo me Enrico ha sempre odiato Blob.
Ma era anche una sua creatura.
Ne avrà montati in tutto dieci su settemila. Non era in grado, non amava la contaminazione tra il trash e la politica, soffriva per un successo che propagandava come suo ai quattro venti, ma che sapeva non appartenergli. Quella di Ghezzi somiglia a una maledizione. Anche se gli piace immaginarsi demiurgo alla base di ogni creazione , è noto per qualcosa che non ha fatto e che dimostra in fondo quanto sia poco creativo. Si è costruito con cura un personaggio che poi, con perizia, ha fatto scientemente a pezzi.
La vostra è stata un amicizia pluriventennale.
Ma lui ha sempre considerato i collaboratori come appendici del suo ego. Sguatteri da cucina. Se rivedo i pezzi Rai in cui entrambi siamo in video, mi impressiono. Non fiato. E anche se apro bocca, non riesco a parlare. Comunque, nella nostra separazione, Freccero ebbe un ruolo. Mi scelse come assistente quando divenne direttore di Rai Due. Ero meno ingombrante di Enrico, ma lui la prese malissimo. Non essere invitato alla festa fu uno smacco.
Lei ha lavorato con Gugliemi e con Freccero.
Diversi. Gugliemi era come Zeus. Aveva i fulmini dentro. Era diretto, duro, saggio. Se decideva una cosa andava dritto. Ha ideato la televisione più innovativa degli ultimi trent’anni. Carlo era un genio di indole opposta. Covava il dubbio. Ha dato un’identità a Italia Uno e messo in piedi cose da pazzi sulla Rai creando una programmazione forse meno originale della guglielmiana, ma comunque magnifica. C’era stato un buco temporale. Freccero era emigrato a Mediaset, forse arrivava con qualche anno di ritardo. La golden age della nostra tv è tra il 1989 e il 1992. Poi arriva Berlusconi e azzera tutto. Dopo si è fermata l’Italia, non solo la televisione. Con Freccero, in ogni caso, ho passato i migliori anni in Rai della mia vita. Tutto un gioco. Un’allegria.
Con Blob si è divertito?
Ho montato tutti i giorni per un anno intero il primo Blob. C’era una piccola redazione che ci passava le informazioni, io sceglievo i filmati per dare un filo logico. Potevo strutturare narrativamente la materia. Conoscevo il cinema e sapevo legare una Giovannona coscialunga a una seduta di Montecitorio. Blob dava le vertigini. Il territorio era incolto. La tv era vergine. Era come se nessuno fino ad allora l’avesse sfiorata.
Come dice Eastwood in uno dei Western di Leone: “Le cose viste dall’alto fanno sempre meno impressione”.
C’era in Blob il massimo della distanza e il massimo dell’aderenza al proprio tempo. C’erano i figli di Marx e della Coca-Cola. I cartoni animati, il digestivo Antonetto, Andreotti, Nanni Moretti e il mio gusto dell’epoca.
Con Moretti vi siete conosciuti bene?
Era molto amico di un mio maestro, Giovanni Buttafava. L’inviato de L’Espresso. Un uomo colto. Grande conoscitore del cinema russo e sommo traduttore di Puskin, Bulgakov, Tolstoj. Mia moglie Alessandra, giornalista, una donna che mi ha aperto gli occhi sull’arte moderna e contemporanea, la conobbi con lui. La portava in giro a vedere vecchie chiese. Nei confronti di Moretti, per il quale aveva recitato in tantissimi film, Buttafava era lievemente possessivo.
Quindi tra voi la frequentazione tra fu periferica ?
Nanni è strano. È come un compagno di classe che non sai come prendere. Ci discutevi sempre. Facevi la guerra. Facevi la pace. È della mia stessa generazione. Però Nanni umanamente è incostante. Cova grandi slanci amorosi ed è capace di abiure improvvise. Quando gli servi ti chiama, altrimenti sparisce. Se entri nel suo giardino poi la fine è nota. Alla lunga, non so perché, si viene regolarmente estromessi dal cerchio magico.
Ora i rapporti tra voi come sono?
Tranquilli per quanto possano essere quieti i rapporti con Nanni che rimane un grande personaggio e non solo del nostro cinema. L’ultima volta l’ho incontrato in pizzeria. Era con Renato Scarpa, l’attore. Lo saluto e poi mi rivolgo a Moretti: “Ho visto che al Nuovo Sacher proietti Django Unchained . Ti piace Tarantino?”. Lui tace. Ripeto la domanda e Nanni senza alzare gli occhi dal piatto sibila: “Tutti a questo mondo abbiamo diritto a vivere, Giusti. Quindi anche te”. In quei casi che fai? Lo mandi affanculo o lasci perdere? Ho lasciato perdere. Vabbè, insomma, che le devo dire? Nanni è fatto così.
Il suo cinema ha segnato una rotta?
Moretti ha cresciuto molti figli, ma come Bertolucci e Pasolini era sterile e non ha avuto nessun erede. Con la scomparsa di Carlo Mazzacurati evapora definitivamente anche la poetica di chi a Nanni fu vicino.
Furono in molti, non sempre con i risultati di Mazzacurati.
In Caro Diario Moretti aveva ammonito i suoi imitatori a non chiudersi nei tinelli con i quarantenni depressi che si fanno di Optalidon e rimpiangono il passato. Li aveva avvertiti. Non lo hanno ascoltato. E quel cinema è tramontato perché chi lo scriveva aveva il respiro corto.
In che stato è il nostro cinema?
È morto. Bloccato. Fermo al 1962. A Il Gattopardo. A La dolce vita. A Per un pugno di dollari.
Ma l’Italia ha appena vinto l’Oscar per il miglior film straniero con “La grande bellezza” e nella stagione passata, Checco Zalone ha ottenuto 60 milioni di euro con “Sole a catinelle”.
Siamo sempre lì. Abbiamo vinto l’Oscar con la riproposizione de La dolce vita. Non mi pare uno straordinario passo verso la modernità. Nel ’62 eravamo in un’Italia divisa tra il boom e il ruralismo, ma sono passati 50 anni. È cambiato il mondo.
Lei sul film di Paolo Sorrentino ha scritto cose terribili. Se ne è pentito?
No. Credo che aver spaccato il fronte della critica abbia fatto bene a La grande bellezza e anche al suo regista. Un tempo la distanza tra recensore e autore era la regola. Risi e Monicelli, ricambiati, detestavano i critici. Oggi, come dice Mariarosa Mancuso, sono tutti a cena sulle stesse terrazze. Stroncare l’amico con cui hai diviso il calice poi diventa difficile.
In occasione del Festival di Cannes, il titolo della sua recensione su Dagospia era “A ridatece Vanzina”. Non recede neanche da quella provocazione?
Il titolo era mio. La Grande bellezza non è un brutto film e io non ce l’ho con lui. Non chiamo mai per complimentarmi. L’unica volta che è successo in vita mia l’ho fatto con Sorrentino. Il divo era un grande film e glielo dissi.
Quindi nessun ripensamento?
In generale si scrive anche per provocare un dibattito. La funzione della critica è anche quella ed è sempre meglio discutere e dichiararsi pro o contro qualcosa che accodarsi a una sciatta unanimità. Se un film non ti piace, dirlo è sano. Onesto. È meglio attaccare ciò che non ti convince che tenersi nel mezzo come fa Curzio Maltese. Il curziomaltesismo è una malattia che nasce con la retorica delle pagine culturali di Repubblica. Un luogo in cui è sempre tutto bello, buono, poetico e propedeutico all’educazione del volgo. È un problema di scrittura. Di forma. Ed è un problema di sostanza. Per scrivere in prima pagina scelgono di preferenza i tromboni. La Aspesi, che tromboneggia raramente, è cento volte meglio di Curzio Maltese o di Gramellini.
Non ama neanche Gramellini?
Non mi piace il gramellinismo. Di Massimo ero buon amico, ma ha scritto cose agghiaccianti. Credo l’abbia rovinato l’eccessiva esposizione televisiva.
È la tesi di Antonio Ricci.
Condivido. La tv può devastare. Posso dire un’altra cosa su Repubblica?
Dica.
Il berlusconismo e Repubblica fanno parte della stessa storia. Il giornale ci ha illuso per vent’anni sull’imminente addio di Berlusconi. Sembrava che ogni giorno fosse quello buono, poi con il tempo, si è capito che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Intanto siamo diventati vecchi. Forse Berlusconi è finito, ma che soddisfazione c’è? Non sono mica così convinto che sia meglio lui di Veltroni. Ma l’ha visto il suo Berlinguer?
Non l’ha convinta?
Il film è modesto con 4 o 5 belle interviste a qualche vecchio signore. L’inquietudine nasce altrove. Nel clima di piaggeria che si è respirato intorno all’opera. Io poi, quando da ragazzo vedevo Berlinguer dai manifesti indicare il simbolo del Pci, votavo subito Avanguardia operaia. L’ultima volta ho provato a votare Grillo, ma le mie figlie al grido di “sei pazzo non puoi farlo” mi hanno bloccato all’ingresso del seggio.
Chi voterebbe oggi?
Alle primarie ho votato Renzi perché vincere è meglio che perdere e poi non vorrei essere da meno dei quarantenni assetati di potere. In città non si ascolta altro: “Matteo mi ha chiamato, Matteo mi ha chiesto, Matteo mi ha promesso, Matteo mi ha giurato che stavolta tocca a me”. Nel migliore dei casi sono mitomani, nel peggiore Matteo li ha chiamati davvero. Le messe cantate, le dirò, mi spaventano. Mi sono sempre piaciuti gli angeli caduti. I talenti pazzeschi alla Dino Risi che era logico, analitico, quasi matematico nei ragionamenti e frequentavo molto. In fondo, nella sua solitudine e nella ripetitività quotidiana dei gesti all’interno del suo Residence con vista sullo Zoo di Roma, non è che stesse così bene. Mentre a corte mi trovo a disagio. Fuori posto. Accade oggi e avveniva ai tempi in cui intorno a Bertolucci che aveva un potere sterminato, imparagonabile a quello di Garrone o di Sorrentino, si spandeva un’aura di sacro timore. Sono venute a mancare le figure di raccordo. Gli uomini che facevano da ponte tra mondi diversi.
Qualche nome?
Le persone come Enzo Ungari, che per Bertolucci scriveva copioni importanti, il critico scapigliato de Il Tempo. Scopatore incallito, intelligente nottambulo, simpatico bugiardo che purtroppo morì giovane e quelle come Marco Melani che nelle notti romane ci portava a far bisboccia con un Benigni molto diverso dal contemporaneo. I rapporti umani sono degradati, quel tessuto si è sfrangiato in mille fili, forse eravamo già stronzi allora, ma c’è stato un momento in cui nel microcosmo del cinema si rideva molto. A vent’anni i Festival erano una festa. Dormivamo tre ore per notte.
Come la considerano registi e colleghi?
Un rompicoglioni, credo. Qualcuno non mi saluta. Pupi Avati se mi incontra cambia strada. Ma ormai la critica è irrilevante, il mestiere non ha futuro e giovani di talento all’orizzonte non ne vedo. Le uniche che mi piacciono e mi divertono sono donne. Giulia D’Agnolo Vallan e Mariarosa Mancuso. Le migliori.
Polemiche con i colleghi. Per Lietta Tornabuoni lei era stretto parente del male.
Mi addebitava un filo diretto con il berlusconismo per via di una certa mia passione per le pellicole sexy degli Anni 70. La critica parruccona mi ha rotto le palle per anni. Si scagliarono contro di me perché osai portare a Venezia, nel corso di una retrospettiva, W la foca di Nando Cicero.
Anche per questo non avverte colpe?
Neanche un po’. Povero Cicero. Tutti a eleggerlo campione di nequizia e non un solo critico che avesse visto il film. Il giorno della presentazione Marco Muller sale sul palco e inizia a parlare: “Avremo anche una pellicola rara, W la foca”. Brusio in platea. Gelo. Nessuno ha cuore di aprire bocca. L’unica coraggiosa è Anselma dell’Olio: “W che?”. Muller ripete stentoreo: “W la foca” e la moglie di Giuliano Ferrara, ad alta voce: “Ma che davvero? Ma che cazzo dici?”.
Fu tempesta anche con Mereghetti.
Ci siamo chiariti, purtroppo Paolo continua a scrivere cose tremende. Non ha capito l’ultimo Von Trier come lui e i suoi colleghi si sono rifiutati di accettare i film di Jonathan Glazer o di Steve Mc Queen. Cazzi loro. Problemi loro. Aveva ragione Dino Risi. Quando muore un regista piangono tutti. Quando muore un critico non c’è uno che versi una lacrima. Quando invitarono Risi, colpevolmente dimenticato per anni, a un incontro pubblico con Lino Micciché a Pesaro, Dino si portò la stroncatura che il quasi omonimo Lino aveva fatto de Il sorpasso. Erano passati 40 anni, non aveva scordato una parola.
In Italia lei non è amato, in compenso Tarantino la stima.
Ci è capitato di ragionare di cinema una sera a Nizza, ospiti di Edwige Fenech. Quentin aveva tralignato con il whisky e ci siamo persi nelle lande del western confliggendo su John Ford. Per noi, nati all’alba dei 50, era il verbo. Per lui poco più di un vecchio decrepito. Noi ci eravamo formati su The searchers, su Sentieri Selvaggi che ancora oggi è il mio western di riferimento. Per Tarantino il cinema nasce con Sergio Leone. La discussione non era oziosa né scolastica perché secondo me, in cuor suo, difendendo Leone, Tarantino manifesta il desiderio di distaccarsi con forza da una certa arietta cinéphile che per lui equivale al vecchio.
Leone era osteggiato dalla critica?
Kezich, Tornabuoni e Fofi lo odiavano. Per loro Leone era merda. Tornando a Tarantino, il suo Django è uno stendardo contro gli adoratori a prescindere di Ford e contro una certa critica. Ma Quentin esalta Leone anche per riannodare il filo godardiano. Quentin finge di fare un grande lavoro sul cinema di serie B, ma in realtà omaggia Godard. Ama Un dollaro d’onore di Hawks, che a Ford deve qualcosa, ma è un’opera strutturatissima di alta ingegneria. Com ’era Fino all’ultimo respirodi Godard, apprezzato da Tarantino e non a caso dedicato ai piccoli film della Monogram. Film non compresi, più o meno come quelli di Nando Cicero.
Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 20/4/2014