Ilaria Maria Sala, La Stampa 20/4/2014, 20 aprile 2014
“COSÌ HO VISTO NASCERE LA RIVOLTA DI TIANANMEN”
Venticinque anni fa le sere di Pechino erano silenziose. Non c’erano quasi automobili, nemmeno di giorno, e quando era bello sotto ai lampioni si acquattavano gli studenti per leggere.
Nei dormitori la luce elettrica andava via alle dieci di sera, e loro portavano il libro sotto la luce di strada, a pronunciare a voce alta le parole inglesi, o a sfogliare affamati i libri che l’allentarsi della censura aveva reso disponibili. I traduttori lavoravano come pazzi, venticinque anni fa, in Cina: se chiedete in giro ve lo diranno tutti, l’inverno dell’88-89 era uno dei più liberi che si ricordino.
Il 17 aprile, la sera era silenziosa come le altre. Io ero nella mia stanza, nell’edificio per studenti stranieri dell’Università Normale di Pechino, sul viale di Xinjiekou, con i suoi due filari di alberi che proteggevano le corsie per biciclette dagli autobus, dalle poche auto e dai rari taxi. Leggevo. Poi dalla strada si sono sentite quelle che sembravano grida, o forse era una festa, o un’insolita folla di passaggio? Era sera e i cancelli dell’Università erano stati chiusi. Chi, come me, aveva sentito il rumore dalla stanza implorò il portiere di aprire il cancello, per seguire l’imprevista manifestazione studentesca. Qualche centinaia di ragazzi e ragazze a piedi e in bici, che veniva dalle Università più a Nord, ancora senza cartelli pronti, che marciava decisa verso il centro. Per non restare indietro presi la bici, e raggiunsi gli studenti. «Dove andate?». «A Tiananmen». «È successo qualcosa?». «È morto Hu Yaobang». «Chi era?». «Un riformatore».
Nelle settimane che seguirono ebbi modo di imparare meglio chi era. Ex Segretario Generale di Partito, delfino per un breve periodo di Deng Xiaoping, il patriarca delle riforme economiche, era caduto in disgrazia per i suoi atteggiamenti troppo liberali: vestiva sempre in completo occidentale e sosteneva che coltello e forchetta fossero ben più pratiche delle bacchette, ma a parte queste idiosincrasie, pensava che la Cina avesse davvero bisogno di riforme. Non solo economiche, ma anche politiche. Era stato inviato in Tibet, come governatore, e anche da lì aveva suggerito di allentare i controlli. Quando gli studenti di Pechino erano scesi in piazza due anni e mezzo prima per chiedere più democrazia e meno corruzione, li aveva sostenuti. Ed era caduto in disgrazia.
Due anni dopo gli studenti non l’avevano dimenticato. E volevano che il suo funerale ricevesse gli onori dovuti a un uomo giusto. E poi piangere Hu e pretenderne la riabilitazione significava criticare Li Peng, il Primo Ministro, un personaggio sovietico allergico a ogni riforma.
Per essere presenti gli studenti scesero in piazza il giorno prima, il 21 aprile, e si strinsero sotto il Monumento agli Eroi, dove gli studenti dell’Istituto d’Arte avevano appeso un enorme lenzuolo con il ritratto di Hu e la scritta: «Spirito della Cina».
All’alba dalla Grande Sala del Popolo cominciarono a uscire i soldati, che circondarono l’edificio. Si sedettero a terra a gambe incrociate, e gli studenti che occupavano la piazza intera da tanti che erano, si sedettero anche loro. Alcuni vennero fatti passare per dare una petizione alle autorità: si inginocchiarono, con gesti d’epoca imperiale, tendendo la lettera con entrambe le mani, a testa china.
Nei giorni successivi a Pechino successe di tutto: dal 24 aprile ci fu lo sciopero generale nelle Università, e le strade ogni giorno si riempivano di dimostranti. Il 17 maggio si arrivò ad più di un milione di persone per la strada: il cuoco e gli inservienti della mensa uscirono con un cartello in mano, dopo aver appoggiato i vassoi sul tavolo, dicendo che ci servissimo da soli perché loro andavano a manifestare. Le maestre di asilo legavano con un nastrino i polsi dei bambini, e se li portavano così, in fila, a marciare con gli studenti. Tassisti e motociclisti facevano le ronde per controllare che tutto fosse tranquillo: li chiamavamo «Le Tigri Volanti». Non c’erano i telefonini, e la sicurezza era affidata al passa parola. Alcuni studenti iniziavano lo sciopero della fame, e vuoi per lo stress, vuoi per il caldo, svenivano uno dopo l’altro e venivano portati via in ambulanza. I giornalisti intanto manifestavano con grandi cartelli che dicevano «Mai più menzogne!».
Era una festa. Arrivò Gorbaciov, salutato come «Mr. Democracy», dagli studenti che non si muovevano dalla piazza. Il 20 maggio fu dichiarata la legge marziale. Ogni sera agli incroci i pechinesi scendevano in pigiama a fare la ronda e controllare che l’esercito non arrivasse. Fermavano le camionette per parlare coi soldati e dire loro: «Non sono contro-rivoluzionari. Sono i nostri studenti». A lungo l’esercito non fece nulla. Le nonne di Pechino portavano a loro e agli studenti leccornie fatte in casa. La piazza era diventata insalubre, dopo settimane di occupazione.
La notte del tre giugno ero di nuovo all’Università, come quasi tutti gli studenti di Pechino, che, stanchi, avevano cominciato a passare la giornata in piazza, per tornare nei dormitori la sera. Fummo svegliati da un grido: «Sparano!».
Gli studenti uscirono dai dormitori, i residenti dalle case, per andare verso l’Esercito di Liberazione del Popolo che, dicevano mentre fischiavano i proiettili, «non può uccidere il popolo!». Sangue e fuoco si impadronirono del centro di Pechino tutta la notte, sotto al canto incongruo dell’Internazionale. Gli ospedali si riempirono uno dopo l’altro, i feriti venivano portati sdraiati su panchine divelte, carretti-bicicletta a tre ruote, a braccia. Alcuni arrivarono che era già troppo tardi.
Quanti morirono? Il tabù su Tiananmen è totale, ancora nemmeno questo si sa.
Wuer Kaixi, uno dei leader studenteschi di allora, oggi vive a Taiwan, e dice che in parte, hanno vinto: «Chiedevamo vere riforme economiche. Le abbiamo avute. Quelle politiche ancora no».
Pechino è una città irriconoscibile, e le sopraelevate hanno divelto gli incroci ai quali, la sera, i pechinesi si riunivano. Tiananmen è blindata per «motivi di sicurezza». E gli studenti di oggi non sanno quello che è successo venticinque anni fa. Ma ad ogni movimento di piazza, da Maidan all’Egitto, quando la polizia spara risuona il grido: «È una Tiananmen!».
Ilaria Maria Sala, La Stampa 20/4/2014