Gianluca Gasparini, SportWeek 19/4/2014, 19 aprile 2014
FRANK & CLAIRE WILLIAMS – SONO AFFARI DI FAMIGLIA– Hanno una storia gloriosa, sette Mondiali piloti e nove costruttori vinti in F
FRANK & CLAIRE WILLIAMS – SONO AFFARI DI FAMIGLIA– Hanno una storia gloriosa, sette Mondiali piloti e nove costruttori vinti in F.l, da portare avanti. Lo fanno con passione e determinazione. E si sapeva. La sorpresa – incontrando Frank Williams e la figlia Claire, che da un anno lo affianca alla guida del team – è scoprire quanto si divertono. Si prendono in giro, scherzano, ridono. In questa intervista, ma di recente, visti i risultati, anche in pista. Com’è stato il primo giorno in Williams? Per Frank da fondatore... FRANK «Era il 1969 a Slough, vicino a Heathrow. Abbiamo firmato il contratto di affitto e siamo entrati subito nei locali. Facevamo correre una Brabham per Piers Courage ed eravamo sei in tutto. Il primo giorno l’abbiamo passato a imbiancare i muri e sistemare le finestre. Era un buon posto, a soli venti minuti dall’aeroporto e costava poco. Se si potesse vedere adesso, capireste perché costava poco...». CLAIRE «Io avevo già fatto uno stage in azienda, non pagato, ci tengo a dirlo, ma il mio primo giorno di lavoro quando nel 2002 sono stata assunta all’ufficio stampa era un lunedì dopo un GP. Al marketing di solito ci sono 25/30 persone, ma le stanze erano vuote perché stavano tutti tornando dalla gara. Ho passato il tempo a chiedermi “e adesso cosa faccio?”, poi ho iniziato a mettere insieme la rassegna stampa. Dal giorno dopo sono arrivati gli altri e mi sono abituata». Quante volte al giorno vi vedete? F «Non vorrei sembrare cinico, ma incontrarsi è inevitabile... (ride). E anche se non abbiamo riunioni lei mette dentro la testa e controlla se ci sono e come va». C «Abbiamo uffici vicini, dunque facciamo spesso due chiacchiere. Potremmo parlare per un giorno intero...». Qual è il compito più difficile nel gestire una struttura così grande? F «Dipende sempre da quanti soldi hai in banca... Claire ha fatto un gran lavoro, di recente, per tenerci a galla. Con il 9° posto nel Mondiale 2013 i soldi versati da mister Ecclestone sono stati pochini... Ora la responsabilità di trovare i finanziamenti è sua e lo fa bene». C «Guardate che faccia contenta ha, è così felice che non tocchi più a lui! Se sento la responsabilità? Sì, ma con noi ci sono Mike O’Driscoll che è un gran amministratore delegato, e altre persone. È una responsabilità condivisa ma certo la sento, perché parliamo di posti di lavoro e qui ci sono 550 dipendenti». Qual è la qualità migliore dell’altro/a? F «Lei, come diciamo noi britannici, è a tough piece of work (una molto tosta; ndr). È forte a livello mentale e non accetta i no come risposte. Sua madre (Virginia, scomparsa nel marzo 2013; ndr) era organizzatissima, faceva tutto al massimo: casa nostra era immacolata, quando cucinava doveva essere tutto perfetto. Claire ha preso molto da lei e le qualità della madre le ha portate sul lavoro». C «Lui è così innamorato della F.l! Ha 72 anni ma la passione non è mai diminuita. La voglia di lottare ancora e tenere duro per andare avanti nonostante momenti difficili, la sua tenacia, mi hanno sempre impressionato». Cosa cambiereste dell’altro/a? F «È una domanda ingiusta: io devo stare legato a lei e lei a me, siamo incastrati... Ma non vorrei fosse diversa da com’è». e «Non cambierei niente: sinceramente sono orgogliosa di essere nata in questa famiglia e di far parte di questa azienda». La lite più grande che avete avuto? F «Mai litigato...». C «In famiglia non abbiamo avuto grandi discussioni. E non mi sono mai sognata di litigare con lui, faceva troppa paura, non l’avrei mai spuntata in una discussione con papa: lui è il patriarca e non c’è democrazia...». Cosa volevate diventare da piccoli? F «Non avevo ambizioni particolari alla fine della scuola. Volevo fare il pilota, ci ho provato, ma non ero così bravo, o perlomeno non avevo abbastanza soldi. Però parlavo molte lingue, ero un buon organizzatore e così facevo correre altri, spesso in Italia. Ricordo negli Anni 60 un ritorno da Caserta (dove si correvano gare di categorie minori), con il mio omonimo Jonathan Williams e la F. Junior caricata su un furgone scoperto Volkswagen. Stavamo dormendo in autostrada: alle due di notte abbiamo sentito una botta e Jonathan ha tirato un urlo spaventoso. Erano due poliziotti italiani che avevano visto l’auto da corsa sul cassone ed erano saltati su per dare un’occhiata. Ne succedevano di ogni. Claire? Pensavo diventasse un medico, così sarebbe stata autosufficiente a livello economico...». C «Io a fare il dottore non ho proprio mai pensato. Non c’era un piano prestabilito: credevo che mi sarei sposata e avrei avuto dei figli. Sono andata a scuola dalle suore e immaginavo che alla fine il mio destino sarebbe stato solo quello di formare e mandare avanti una famiglia». Che studenti eravate? F «Ho frequentato per nove anni una scuola cattolica nel sud della Scozia. Durissima: era permessa una sola doccia calda a settimana, al mattino ci si lavava con acqua fredda. Alla fine ti abitui a tutto. Di pesante c’era doversi alzare alle 5.45 ogni mattina per andare a messa. Questo francamente era davvero un po’ troppo. Però poi a colazione ci davano porridge e syrup... Ero bravo in matematica e ho studiato latino, francese, italiano e tedesco. Mi è servito». C «Io? Risultati nella media ma lavoravo. Mi piacevano le lingue e la storia ma ero pessima in scienze». Che pilota avete amato di più? F «Alan Jones, quello che si dice a man’s man (un uomo vero; ndr). Uno capace di bersi un drink al pub e reggere bene una rissa. Ha vinto gare mentalmente e fisicamente molto dure e conquistato un Mondiale difficile nel 1980. Non ho ancora capito perché si sia ritirato alla fine del 1981: è stata una decisione stupida, era ancora fortissimo». C «Nigel (Mansell; ndr). Mi piaceva il modo brutale e duro in cui guidava, era magico in un certo senso. Ed era inglese. Ma abbiamo avuto un sacco di piloti forti cui siamo affezionati». Perché amate tanto la F.1? F «Ha fascino, è divertente, c’è competizione, è sexy per così dire. È un business duro ma è un buon business. È successo, come quelli che si innamorano del calcio senza un perché». C «È difficile non amarla se cresci alla Williams, con una famiglia consumata dalla passione: è come l’ossigeno che respiri. Ogni due settimane c’era un GP e ci cadi dentro. È un lavoro impegnativo, non certo dalle 9 alle 17. Ma ti piace». Il GP indimenticabile? F «Il primo che abbiamo vinto: Gran Bretagna 1979 con Clay Regazzoni, a Silverstone, in casa. Era una bellissima giornata di sole, con una folla enorme sulle tribune, 120 mila persone. Per la nostra scuderia è stata la svolta. Se quel giorno ho pianto? Certo che no, siamo inglesi...». C «Ogni gara a Silverstone è indimenticabile. Ricordo quando da ragazzina arrivavo in circuito con papà e i tifosi circondavano la nostra auto incitandoci. Il massimo fu la vittoria di Nigel nel 1992, con l’invasione di pista del pubblico. E mi piacevano quei giorni in pista: facevamo i sandwich con il tè per tutti, lavoravamo». F «Lavoravi? Non ha mai lavato un piatto in vita sua...». C «Non è vero! Pulivo e lavavo di tutto, solo che lui, impazzito sul muretto dei box, non poteva vedermi...». La parte migliore della giornata? F «Qui in fabbrica. Mi tengo in forma spingendo la carrozzina, mica facile: i paraplegici hanno la parte superiore del corpo robustissima, noi tetraplegici siamo un po’ fregati. Ma mi arrangio, vado in giro per i corridoi a rompere le scatole. Quando l’ufficio di Claire al marketing era dalla parte opposta dell’azienda mi facevo delle gran corse, si fa per dire, per andare a trovarla. Mi vedevano arrivare lanciato al grido di “pericolo in arrivo, sono Racing Frank”». C «Pensate che scherzi, ma è vero: anche adesso al mattino passa davanti al mio ufficio a 30 all’ora con la carrozzina. Io invece amo la fine della giornata: quando vai a casa e ti puoi mettere tranquilla, rilassarti, magari dopo aver raggiunto qualche obiettivo importante».