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 2014  aprile 19 Sabato calendario

SCUGNIZZO A ME? CHE ONORE


[Lorenzo Insigne]

Quando a 15 anni fu acquistato dalla Grumese, dove allora giocava, colui che oggi ne ha 22, ambisce a un posto al Mondiale ed è per tutti Lorenzo il Magnifico, costò al Napoli appena 1.500 euro.
Insigne, cosa è rimasto del ragazzino di allora?
«La stessa voglia di stare con la gente del quartiere in cui sono cresciuto. Pure il carattere e la volontà sono gli stessi. Giocavo a pallone per strada con mio fratello Antonio, più grande di me: avevo appena imparato a camminare. Poi ho iniziato a girare le squadrette della zona cambiandone una all’anno fino ad arrivare alla scuola calcio della Grumese, un po’ più importante delle altre. “Sei troppo piccolo di statura, ripassa se e quando sarai cresciuto”, mi dissero. Feci un tale casino che mi presero subito».
Si offende se in giro per l’Italia si sente chiamare scugnizzo?
«No. Sono di Napoli, fiero di esserlo, e non posso offendermi se vengo definito così. E poi sono cresciuto in mezzo a loro mangiando pizzette al pomodoro, quindi...».
A suo figlio Carmine, un anno appena compiuto, passerà il testimone della napoletanità più verace?
«L’importante è che impari a stare tra la gente».
Aiuta sua moglie col bambino?
«Come no. Cambio i pannolini, preparo la pappa... In casa faccio quasi tutto».
E quel “quasi” a cosa si riferisce?
«Non faccio le pulizie. Non è che mo’ mi metto a fare pure i servizi!».
E quando Carmine sarà cresciuto chi lo aiuterà coi compiti?
(ride) «Il doposcuola».
L’idea che ha da adulto del calcio è la stessa di quando era bambino?
«Un poco è cambiata perché compagni e avversari non sono più i ragazzini. Ma se vuole sapere se qualcosa del mio mondo mi ha deluso, le rispondo di no. Del resto sognavo cose semplici: giocare in Serie A e vincere qualcosa d’importante. Un desiderio si è realizzato, per l’altro ci stiamo lavorando» (sorride).
Al San Paolo, il suo stadio, una volta entrava per fare il raccattapalle.
«Litigavo ogni volta col mio allenatore delle Giovanili perché pretendevo che scegliesse sempre anche me tra i ragazzi che alla domenica avrebbero fatto i raccattapalle. Mi ricordo quello che ci “comandava” a bordo campo: “Mi raccomando, uaglio’ (ragazzi), se il Napoli vince nascondete il pallone!” (ride e muove a semicerchio la mano nel tipico gesto che indica il rubare qualcosa). E poi quella volta che un amico aveva il biglietto per la partita con la Sampdoria, e io e un altro no. “Vabbè, restiamo qua davanti e cerchiamo di entrare insieme ai raccattapalle”, dissi. Non ce ne fu bisogno: dieci minuti prima dell’inizio aprirono i cancelli e riuscimmo a infilarci in mezzo alla gente».
Ma è vero che giocare con la maglia del Napoli è più difficile per un napoletano? A lei i tifosi non perdonano niente.
«È vero che, se la squadra perde, i tifosi se la prendono con me perché sono napoletano. Ma non mi arrabbio: in questo modo cresco come uomo e come giocatore. Tanto, qui la gente ti critica pure se vai a giocare da un’altra parte. Siamo gente molto orgogliosa e vogliamo che chi ci rappresenta faccia sempre bella figura, dovunque sia».
Ma lei non ci resta male quando viene fischiato? Una volta ha rivolto un gesto di ribellione verso il pubblico.
«Ci resto male come tutti. Ma so che i fischi contro di me sono fischi d’amore. So’figlio di questa città, e questa città da me pretende tanto».
Ha detto: a Napoli non posso uscire neanche per un caffè. Purtroppo nella sua città a volte emergono forme di pressione sui calciatori molto più pericolose: per esempio, quelle raccontate dal pentito di camorra che ai magistrati ha confessato che le rapine ai danni dei calciatori e delle loro mogli erano la ritorsione per il rifiuto degli stessi a presenziare a eventi organizzati dai clan. Lei è mai stato avvicinato da persone dalle quali sarebbe meglio stare lontano?
«Io abito ancora a Frattamaggiore, dove sono cresciuto. Mi conoscono tutti e non ho mai avuto problemi. Lì posso anche uscire tranquillamente. A Napoli vado solo per lo shopping: i tifosi mi chiedono l’autografo e la foto. Non posso lamentarmi, al posto loro farei lo stesso».
Quanti biglietti a partita le chiedono i suoi amici d’infanzia?
«Seee... Do biglietti solo alla famiglia. Se volessi procurarne a tutti quelli che li chiedono...».
Nella sua famiglia a calcio giocavano tutti, da papà Carmine in giù. A fare carriera siete però stati solo in due: lei e Roberto, 19 anni, pure lui attaccante, ora al Perugia in LegaPro. Qualcuno dice che è addirittura il più forte della coppia. Come la mettiamo?
«Eehhh... (sospira, scettico). Se facciamo un uno contro uno non vale: nessuno dei due sa difendere, l’altro andrebbe sempre in porta».
Che cos’ha lei più di Roberto?
«Giochiamo nello stesso ruolo ma siamo due giocatori diversi. A me piace fare la seconda punta, al massimo il trequartista; lui è più un esterno di fascia. Io ho più visione di gioco, lui vede più la porta».
Quando ha capito di essere diventato famoso? Quando tra i botti di Natale è comparsa la bomba-Insigne?
(ride) «No no... L’ho capito quando il Napoli mi ha portato in ritiro la prima volta, cinque anni fa, e poi quando Mazzarri mi disse: “Se vuoi restare qua devi lottare per conquistarti il posto”. L’ho fatto, mi pare: nessuno mi ha regalato niente, sono partito dalla serie C e adesso vedete dove sono arrivato».
Al Mondiale ci pensa?
«Eccome, se ci penso... Dipende tutto da me, da quanto riuscirò a essere protagonista nella squadra e insieme a essa».
Perché non ha preso il “7” lasciato libero da Cavani? Pudore o paura dei paragoni?
«Ho scelto il “24” perché è il giorno in cui è nata mia moglie».
In un’intervista rilasciata ai tempi di Mazzarri disse: “lo voglio restare a Napoli, ma devo capire alcune cose”. È vero che i suoi problemi non erano legati al ruolo, ma ai minuti in campo; a un ruolo, cioè, da titolare?
«Dico solo che confermo la mia volontà di rimanere. Il mio sogno è restare il più a lungo possibile a Napoli, se però nessuno mi fa passare la voglia».
In che senso?
«Nel senso che se mi accorgessi che gioco poco preferirei trovare spazio altrove. Io non mi accontento di guadagnare milioni. Io mi diverto a stare in campo».
Che cosa distingue Benitez da Mazzarri?
«Sono molto diversi. Mazzarri è più “pesante”, nel senso buono: voleva allenamenti senza risate, anzi, senza che volasse una parola. Certe volte caricava un po’ troppo le partite. Benitez è più rilassato, scherza, spiega le cose in modo tranquillo. Ci sono giocatori che rendono di più con un allenatore severo, altri come me che capiscono le cose senza bisogno di essere martellati».
A lei che cosa chiede Benitez?
«Di difendere prima ancora di attaccare. Di non lasciare “buchi” a centrocampo».
E lei, a Benitez, ha dato consigli sulla cucina napoletana?
«Penso che sappia già tutto...» (ride).
Tra i coetanei chi è più forte di lei nel ruolo di attaccante esterno?
«Vabbè... proprio ’sta domanda...».
Risponda sinceramente, non passerà per presuntuoso.
(ride) «Allora dico nessuno».
Ha detto: non andrei alla Juve nemmeno per il triplo dello stipendio. E se a chiamare fosse uno sceicco?
«Io sto bene qua e spero di restarci il più a lungo possibile. Almeno fino a diventare il capitano del Napoli».

Un paio di volte, durante l’intervista. Insigne si è passato un fazzoletto sulla fronte per detergersi il sudore. Ha giurato che fosse l’effetto della temperatura interna alla saletta dove eravamo. Se è una bugia gliela perdoniamo volentieri: dire sempre la verità, soprattutto quando sei conosciuto da molti, può essere un esercizio complicato. Lorenzo ha fatto onore ai suoi occhi limpidi da ragazzino, convincendoci invece di possedere una dote che nel calcio lo rende prezioso: la schiettezza.