Gea Scancarello, SportWeek 19/4/2014, 19 aprile 2014
SORVOLANDO RIO – IN ALTO LO SPORT
La spiegazione forse sta tutta nella Carta. Nera su bianco. Immediata. Lo sport è un diritto sociale: così dice l’articolo 217 della Costituzione federale brasiliana, firmata nel 1988, quando i verdeoro avevano già incassato tre Mondiali, Pelé da tempo era diventato patrimonio dell’umanità e soli quattro anni erano trascorsi dalla fine della dittatura militare e dalle sue privazioni.
“È dovere dello Stato promuovere pratiche sportive, formali e informali, che sono un diritto di ciascun individuo” recita il testo. Così chiaro che, benché succeda raramente, soprattutto se si tratta di leggi e affini, a Rio de Janeiro la questione sembra essere stata presa molto seriamente.
DEMOCRAZIA DEL MOVIMENTO
I campetti da gioco rubano spazio all’asfalto, si infilano tra i palazzi e le scalinate; nascono sulla sabbia delle spiagge dorate delle cartoline e nella miseria delle favelas abbarbicate sulle colline. Ogni muro, ogni strada, ogni versante scosceso ricoperto dalla giungla assai poco urbana è un terreno di sfida, confronto tra sé e gli altri, con la natura o, chissà, con il limite, l’infinito o il Cristo Redentore che abbraccia dall’alto la città.
La geografia esuberante di una metropoli poco domabile e poco domata dal cemento, comunque abbondante, certo aiuta. Ma a Rio lo sport è una questione ontologica, dell’essere, rappresentata visivamente dalle centinaia di palestrine all’aperto che si srotolano nelle strade che costeggiano il mare e inquadrata nei rapporti tra il povero e il ricco, i ragazzi dell’alta borghesia del quartiere di Leblon e quelli che scendono dal morro (la collina) di Vidigal, tutti con una tavola da surf sottobraccio e le onde vicino allo scoglio dell’Arpoador come punto d’incontro. Lo sport, insomma, qui non si pratica: si vive.
L’AIUTO DELLA NATURA
Dicono quelli che a Rio ci sono arrivati dopo essere stati in altre parti del mondo che è merito della luce: alle sei, estate e inverno, è tempo di rotolare fuori dal letto e mettersi in movimento, in qualsiasi modo. Il culto del corpo è una necessità, per chi vive in spiaggia. E undici mesi di bel tempo all’anno obbligano a stare all’aperto e a prendere possesso della città. La cartina geografica aiuta a capire il resto: 38 chilometri di costa bagnata dall’Oceano, la foresta di Tijuca, con quasi 4 mila ettari di estensione, al posto di quello che negli altri posti si chiama parco, tre gruppi montagnosi con una punta, nel massiccio di Pedra Branca, che tocca i 1.024 metri. In definitiva, l’incontrollabile irruzione della natura nel contesto urbano come fattore che risveglia i sensi.
STADI E CAMPETTI
Poi c’è una cultura nazionale che ha fatto dello sport il proprio brand nel mondo. L’ultimo censimento dello Stato di Rio, anno 2003, contava 155 stadi, 1.685 campetti, 367 piscine, 39 piste di atletica; oggi, soltanto nel perimetro cittadino, le palestre a pagamento sono 1.095, più tutte quelle gratuite spuntate negli ultimi anni, per opera del Comune o di volenterosi. Quante siano è impossibile da sapere; pur nelle decine di ricerche finanziate dal governo per studiare il fenomeno dello sport a Rio, nelle sue declinazioni sociali, interculturali e commerciali, non si trova un dato chiaro: è pur sempre il Brasile.
GRANDI INVESTIMENTI
Nel bilancio 2012 del Comune, però, alla voce “Spese per lo sport nella comunità” (non il Mondiale foriero di polemiche, non i Giochi olimpici del 2016), la cifra complessiva è di 56 milioni di reais, 18 milioni di euro. Qualcosa sarà anche finito nelle tasche dei funzionari di partito e nelle maglie della burocrazia locale, ma l’investimento dice comunque molto dell’intenzione di un’amministrazione di assecondare la naturale inclinazione della sua gente. Nonché dell’importanza di un’occasione di riscatto per gli ultimi della scala sociale.
LA SPINTA DEL CALCIO
Le magliette di Neymar e la sua gigantografia affissa su ogni cartellone pubblicitario a due mesi dal fischio d’inizio del Mondiale sono d’altronde un invito molto chiaro. Le scorribande dell’ex imperatore Adriano, rientrato alla base e diviso tra la residenza multimilionaria nel quartiere inaccessibile di Barra e la vecchia casa dello zio nella baraccopoli poco distante, ancora di più.
«Una volta che li hai presi in squadra i ragazzi delle favelas cercano di dimostrare qualcosa più degli altri», racconta André Klun, 26 anni, coach della squadra di basket del Flamengo ed ex giocatore, nella stagione 2004-05 con la maglia della Virtus Roma. «Ma il campo, specie quello all’aperto, è davvero l’unico posto in cui sono tutti uguali. Lo stereotipo ricchi contro poveri qui non funziona: la passione è la stessa per tutti». A guardarle con una prospettiva diversa, magari volando alto come nelle foto di queste pagine, le differenze si appiattiscono. Specie se a tutti viene chiesto lo stesso contributo per mantenere viva la città.
SPAZIO GRATIS
A Rio il Comune infatti ci mette lo spazio: tantissimo, gratuito, sempre aperto, accessibile a chiunque voglia divertirsi. Alla gente viene chiesto di mantenerlo in ordine, conservandolo integro e magari sostituendo le reti o i canestri quando si rompono. Sorpresa per gli scettici: funziona. Persino in Brasile. Persino in un posto da sei milioni e passa di abitanti, in cui i ragazzi meticci scesi dalle baraccopoli sulle colline si fanno i muscoli sollevando blocchetti di cemento tra Ipanema e Copacabana. E l’unico segnale hipster per il momento è la passione per lo skateboard.
UGUAGLIANZA IN CAMPO
Funziona anche l’idea di coinvolgere la collettività per dare un’occasione a chi per indirizzo di nascita non ce l’avrebbe, con lo stesso scambio che in America rende ricche le società sportive o le banche e che a Rio de Janeiro costruisce spazi di uguaglianza altrimenti non consentita.
«Abbiamo scelto Natalia perché è una brava ragazza e un’ottima sportiva: lei si allena da noi e noi le paghiamo l’università», spiega Gianluca Padovan, romagnolo 47enne emigrato a Rio per esportare, con successo, il beach tennis. Il meccanismo virtuoso parte dai suoi campetti, al Club Ipanema 500, e si allarga per centri concentrici: nella favela di Vidigal dove vive, Natalia, 23 anni e a cinque già campionessa regionale di judo, insegna ai ragazzini praticamente qualsiasi sport si possa praticare. Dove non arriva lo Stato, si mette la buona volontà. E, più di recente, anche il desiderio di apparire.
IN ATTESA DEL MONDIALE
Mai quanto ora la chance è ghiotta: tra la Coppa del mondo e l’Olimpiade del 2016, il Brasile e Rio de Janeiro in particolare sono sotto gli occhi di tutti. I grandi eventi sportivi dovrebbero essere la prova concreta della democrazia dello sport, l’apoteosi dell’uguaglianza tra primo e ultimo mondo, la prevalenza delle persone e delle loro capacità sui contesti di appartenenza. Ma i mega investimenti nelle nuove infrastrutture, a partire dai 360 milioni di euro spesi per rifare la faccia dello stadio Maracanà, a Rio più che assottigliare le differenze le hanno acuite.
Tra Mondiali e Giochi olimpici, il governo ha messo in conto spese per 16,4 miliardi di euro, ma i progetti per il Villaggio olimpico, nell’esclusivo quartiere di Barra, tradizionale riparo di calciatori, piloti e personaggi del jet set, escludono agli occhi dei critici la compenetrazione con il resto della metropoli.
Secondo le stime fornite di malavoglia dal Comune stesso, poi, in vista del Mondiale solo a Rio almeno 65 mila persone sono state forzate a lasciare le proprie baracche per fare spazio ad alberghi e locali esclusivi, senza ricevere compensazioni sufficienti a procurarsi altre sistemazioni di una qualche dignità. Motivazioni sufficienti a rompere l’idillio della città con lo sport? Difficile, se non impossibile. I brasiliani hanno già comprato un milione di biglietti per il torneo, su 2,3 complessivamente distribuiti. Il fischio d’inizio, il 12 giugno, è destinato probabilmente a cancellare le marce di protesta dell’estate 2013, qualche polemica residua e anche il dubbio che il denaro investito negli stadi si potesse impiegare invece per ospedali e scuole, come chiesto dai manifestanti del movimento No Cup.
UN PEZZO DEL PAESAGGIO
D’altronde, recita la relazione del “Centro esportivo virtual” del Ministero dello Sport, chiamato a indagare sul rapporto tra la città e l’attività fisica, “i surfisti e gli sportivi in genere a Rio sono un pezzo del paesaggio”, insostituibile elemento della città. Figuriamoci Neymar, Thiago Silva, David Luiz, Ramires e Julio Cesar tutti insieme nel tempio del calcio. Magari non è democrazia dello sport, ma di certo imprescindibile leggerezza dell’essere.