Antonio Gnoli, la Repubblica 20/4/2014, 20 aprile 2014
GIANFRANCO RAVASI
[Intervista] –
La levigata cortesia del Cardinal Ravasi si intona perfettamente con l’atmosfera ovattata che proviene dalle stanze del Pontificio consiglio della cultura. In un pomeriggio in cui i turisti, ormai esausti, sembrano ritrovare una quiete nel corteo seriale di pullman parcheggiati lungo via della Conciliazione, vado a trovare sua Eminenza.
Rientrato dal Nord Europa, è in partenza per gli Stati Uniti. Gli chiedo se l’impegno internazionale non lo stanchi. «Fra tre anni, allo scoccare del settantacinquesimo, potrò pienamente dedicarmi ai miei studi», dice con divertita rassegnazione. Butto lì delle parole. Senza un ordine preciso. Convenevoli. In attesa che si trovi una stanza dove colloquiare. A un certo punto gli ricordo di un’amicizia comune: Beniamino Placido. E risveglio nel mio interlocutore un pathos antico: «Quell’amicizia fu un dono. Beniamino aveva, delle virtù del laico, la disponibilità e l’ironia, la curiosità e l’umiltà.
Gli proposi di scrivere insieme una grammatica di ebraico biblico. Mi guardò senza ansia. Potrei accettare solo a un patto. Quale? Chiesi. Che lei ci metta tutta la sua conoscenza e io tutta la mia ignoranza».
Cos’è la perdita di un amico?
«C’è il dolore e magari il rimpianto per non aver detto o fatto tutto quello che avremmo immaginato. Ma un’amicizia, anche quando non c’è più perché l’amico se ne è andato, resta con la sua forza di testimonianza».
Si conosce anche attraverso l’ignoranza?
«La condizione del non sapere è indispensabile alla conoscenza».
Ma il mondo non continuerà a dividersi tra coloro che sanno e coloro che non sanno?
«È una distanza che va interpretata, compresa e infine, per quel che si può, colmata».
Come?
«Oggi la Chiesa sta rivestendo di un significato nuovo la parola semplicità».
Pensa al pontificato di Francesco?
«Con ogni evidenza ha spostato la comunicazione dal piano teorico a quello esistenziale. La semplicità ne è l’effetto. Ma anche la causa. Di solito i nostri discorsi sono carichi di subordinate, i suoi di coordinate».
È diretto.
«Dotato di una comunicazione visiva e di una somaticità viva. Il suo corpo è parte integrante della comunicazione: ha abolito la distanza dai fedeli».
La comunicazione oggi è rapida ed essenziale. Ci si riconosce?
«Gesù avrebbe potuto tranquillamente usare Twitter: “Restituite a Cesare quel che è di Cesare...” non sono più di 50 caratteri ed è tutto pienamente comprensibile. Ed efficace».
Se lo immagina Gesù oggi tra le gente?
«Se Gesù tornasse tra le strade del mondo forse gli chiederebbero i documenti».
Il panorama è radicalmente diverso rispetto a duemila anni fa.
«Non c’è dubbio. Ci sono state molte rivoluzioni nei modi di vivere e di pensare».
Quella più recente?
«Visto che parliamo di comunicazione pensavo a quanto andava dicendo McLuhan qualche anno fa».
Cosa diceva?
«Che i nuovi mezzi di comunicazione sono il prolungamento dei nostri sensi».
Un’idea brillante.
«Da ripensare. Anche alla luce del fatto che sta cambiando la nostra percezione e il rapporto con il nuovo ambiente ».
Sempre più spesso si parla di mutazione antropologica.
«Ci siamo dentro in pieno. Occorrerà capire qual è la direzione».
Ma Dio permetterà che l’uomo gli sfugga di mano?
«Dio non è un controllore».
Non la spaventa?
«Cosa?».
Non la spaventa vedere l’immensa, veloce, sconcertante trasformazione del mondo attraverso la tecnica e la scienza?
«No. Ciò che sta accadendo deve indurci a riflettere sul fatto che la scienza non può sottrarsi al confronto con la religione».
Non è una vecchia storia che ci siamo buttati alle spalle?
«Sono linguaggi diversi. E differenti sono stati i modi per affrontarli. Il grande fisico tedesco Max Plank non vedeva contrasto. Semmai una possibilità di completarsi nella mente di chi pensa seriamente religione e scienza».
È la conclusione di un lungo conflitto?
«Gli animi più avvertiti da tempo hanno messo la parola fine a questa guerra. Perfino Nietzsche scrisse che sebbene non ci fosse amicizia non c’era neppure inimicizia, dal momento che religione e scienza vivono in sfere diverse».
Ciascuna nel suo mondo.
«Non escludo, però, che si parlino. Fede e scienza sono distinte ma non separate. Il dialogo è possibile».
La posta in palio è la verità?
«Non necessariamente come una contesa».
Qual è la sua idea di verità?
«Nella mia esistenza la verità mi precede, mi eccede e mi trascende. Sono distante da una concezione situazionista o dal relativismo oggi imperante. Per me è vera l’immagine che Platone usa nel Fedro, quando descrive la biga alata che corre nella “pianura della verità”. Quest’ultima è estesa, infinita e la si deve conquistare».
Come si conquista un obiettivo?
«Non in quel senso. Credo l’abbia espresso benissimo un pensatore come Adorno quando in Minima moralia scrive: “La verità non la si ha, nella verità si è”».
Lei fa letture abbastanza sorprendenti.
«Servono a bilanciare la mia inquietudine».
È inquieto?
«Quando conobbi Julien Green, che da protestante si era convertito al cattolicesimo, gli dissi che di lui avevo letto quasi tutto e che mi sarebbe piaciuto scoprire il nodo della sua religiosità. Mi rispose citando una frase del suo Diario: solo finché si è inquieti si può stare tranquilli. Il mio interrogarmi non può prescindere dall’inquietudine ».
Si entra nella sfera della fede e dei suoi tormenti?
«La fede è un atto complesso. Si intreccia con la ragione, la fiducia, la scienza, le opere. Ma senza esaurirsi in essi. I tormenti le appartengono».
Come definirebbe la sua fede?
«Una forma di amore. L’amare non esclude il comprendere, ma viene prima».
C’è un momento della sua vita in cui questa sensazione ha preso forma?
«Dovrei pensare a me bambino».
Antonio Gnoli, la Repubblica 20/4/2014