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 2014  aprile 20 Domenica calendario

RENZO ARBORE

[Intervista] –
Caro Arbore, è Pasqua: Dio? «Ma come si fa a crederci?». E indica, allargando il braccio, tutti i disastri del buon Dio: «Sapevo che l’ingiustizia è un vizio umano. Mi disturba troppo doverla attribuire a Dio». Anche «le sofferenze e la morte della moglie che non ho sposato», Mariangela Melato: «Non riesco a parlarne. Vede, devo voltarmi dall’altra parte. Diciamo che non sono più credente, ma forse … speranzoso». Se volete capire la nostalgia che affligge e conforta «uno dei paesi più vecchi del mondo» dovete pensare a lui come all’uomo-simbolo di una bella Italia che non c’è più e al tempo stesso misurare l’ardore con il quale a settantasei anni vorrebbe stanare un’altra Italia che non riesce ad esserci: «Bighellono per teatri, ma trovo sempre meno artisti, meno improvvisatori». Forse non li vede, magari perché è cambiato il codice? «È vero che è cambiato. Hanno tutti bisogno del copione. E l’umorismo è quasi sempre pesante e spesso direttamente politico. Ma io credo che si possa ancora divertirsi con l’allusione e con la leggerezza». Cosa salva la sua famosa notte dalla malinconia? «Rido di me, prima degli altri». E difatti sul palcoscenico del Sistina ho visto Arbore mostrare al pubblico i suoi capelli tinti: «Nel mondo dello spettacolo lo facciamo tutti». Ha esibito l’età: «So che siete tutti lì a prendermi le misure: “vediamo come si mantiene Arbore”». E le debolezze sono vezzi: «Mi sono iscritto ad Amnesy International. A De Crescenzo, che ne è presidente, ho chiesto: alla tua età ti piacciono ancora le donne? E lui: moltissimo, ma non ricordo perché».
Il suo amatissimo faccione ridente, che gli anni hanno lavorato, celebra o promette? Di sicuro la sua casa giocherellona non è più così eversiva: «Questi mobili stile Miami, gli oggetti dell’America degli anni Quaranta e Cinquanta, tutto quello che vede nacque come reazione ai mobili pesanti della mia giovinezza, i salotti in legno della borghesia. Facevo lo sberleffo a quel mondo soffocante con le tappezzerie nascoste alla luce che neppure il ‘68 riuscì a mandare per aria, ma la mia televisione forse sì». E adesso invece «non riesco a liberarmi degli oggetti che ho collezionato. Sono preziosi e hanno un mercato importante, ma io no so più dove metterli. Lo so cosa pensa: Arbore voleva liberarsi e liberarci da quelle cose e si è imprigionato e ci ha imprigionato in queste altre». Apre un armadio e cade di tutto, anche gli occhiali di Elton John. Parliamo allora dei soldi: «Quelli che ho impiegato meglio sono quelli che ho sprecato». Anche nel frigo ci sono esemplari di specie preziose, i ricci di Acitrezza, le fave bianche di Maglie, i granchi di New Orleans e la carne dell’Argentina, il lampascione di non so quale Puglia: «I miei pusher non mi fanno mancare nulla». A tavola ogni leccornia è nostalgia regale, bocconi di Lucullo, scongelati come Fazio a Sanremo scongelò le Kessler. Attorno microfoni, cadillac, mille radio americane di plastica, cravatte, « simulacri di una vita sbriciolata in mille piccoli oggetti di feticismo, rarissime cianfrusaglie, da Cuba, da New Orleans, da Capo Verde…». Ci sono pure due pupazzi felicemente dissonanti: «Sono di Mariangela. Discretamente tengono banco e dirigono l’orchestra».
Oggi c’è un florido mercato del feticismo e casa Arbore somiglia all’Italia ingombra di un passato che non riesce a diventare passato: «La Rai mi celebra ma non mi scrittura, e li capisco pure. Pensano che un vecchio di settantasei anni non abbia più nulla da dire. Anche io quando ero giovane pensavo che i vecchi erano vecchi». Si diventa vecchi quando non si improvvisa più? «Vedrà che qualcosa ci inventiamo, improvviseremo ancora, e non sarà nostalgia». In fondo lo temono come ai tempi di Alto Gradimento, e infatti lo chiamano per ri-fare e mai per fare..., è la ri-Italia del bel tempo andato. Come se Arbore non potesse più scoprire talenti ma solo rivendicare quelli che ha scoperto, da Benigni in giù: «Un centinaio ». E quei sacerdoti del Nostos che, come Bruno Vespa, ri-festeggiano ogni giorno la Rai democristiana, ancora lo ignorano; mentre gli altri, quelli che furono alternativi, sognano un “tutti per Arbore e Arbore per tutti”: «Rischieremmo di guastare la memoria. E tanti, giustamente, non verrebbero». In un altro Paese gli avrebbero almeno chiesto di salvare la Radio di Stato, che non è più sintonizzata con l’Italia, di organizzare una Rete tv, di dirigere la Rai, da artista e da impresario. Qui non gli offrono nemmeno un trasmissione tutta nuova. «Di sicuro io ho tanta energia, e non mi sento ancora tra quelli che bisogna “ricordare con affetto”. La categoria dei sopravvissuti è diversa da quella dei viventi».
Alla storia dell’improvvisazione non ho mai creduto: il dottor Arbore ha una rara proprietà di linguaggio, è un lettore di libri raffinati, si informa con cinque giornali al giorno. E’, senza paradossi, l’erede scanzonato dei grandi liberali meridionali — napoletani non di nascita — anticomunisti e mai di destra, un notabilato speciale che non è solo Croce e Salvemini: «Ancora oggi se penso alla Napoli di Ansaldo mi emoziono. E mia madre era una Cafiero».
Dice, con ironia fosforescente, di sentirsi «più un tu vo fa l’americano che un intellettuale finissimo», ma in realtà ha insegnato il sorriso ad almeno tre generazioni di intellettuali finissimi. Gioca con l’improvvisazione come Umberto Eco gioca con la goliardia. «Eco mi laureò in goliardia a Bologna, nell’aula magna: “il suo clarinetto — cominciò — è un classico del doppio senso”. E io: “anche il suo pendolo, che va di qua e di là perché non ce la fa”. E poi feci ai professori una domanda di italiano: “che tempo è sarebbe stato perduto?” Lei lo sa?». Pasticcio con i trapassati: «No. È preservativo passato» . Scusi Arbore, l’improvvisazione non è un disvalore italiano? «Improvvisatore non vuol dire impreparato e incompetente. Èil contrario». Radio e tv italiane sono piene di “arborini” arruffoni e volgari: le piacciono? «Per niente. L’improvvisazione che facciamo noi è quella del jazz: la conversazione al posto della sceneggiatura. Io parlo di un artista che conosce ed entra in un testo, ma si esprime solo quando esce da quel testo e improvvisa. In questa casa, io allenavo tutti a stare ciascuno dentro un personaggio predefinito. Frassica era il bravo presentatore, Marenco il bimbo dispettoso… Poi in trasmissione stimolavo ed “attivavo” Benigni e per lui diventava impossibile non improvvisare.
E, come nel jazz, ci vuole anche la complicità di chi ascolta». Non sempre è compatibile con l’audience. «Il mio slogan è sempre stato “meno siamo e meglio stiamo”». Per la verità ha riempito il Sistina come nessuno quest’anno e tutti in piedi cantavano in coro «ohi vita, ohi vita mia».
La canzone italiana esiste ancora? «Vorrei proporre al ministro Franceschini un piano per rilanciare la canzone italiana nel mondo». Non basta l’orrore di Sanremo? «Sanremo, da tempo, non è la canzone italiana. Perciò mi sono sempre rifiutato di presentarlo. Ma ci sono melodie bellissime, di Gaber, Dalla, De André, Paoli, De Gregori che potrebbero farcela nel mercato americano». Beh, se non ce l’hanno fatta da sole. L’espressione “made in Italy” non le fa venire l’orticaria? «È brutta. Rivendica l’italianità in inglese». Come le spingule francesi , le spille da balia, di origine americana, che furono riverniciate a Napoli di francese. «È provincialismo. Meglio sarebbe “gusto italiano”. Ma sa, io sono un patriota, forse l’ultimo». Mi mostra, al capezzale del suo letto, «il ritratto di famiglia degli italiani: Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele». Allora a Franceschini proponiamo il Risorgimento della canzone con il rock made in Italy, suoni già suonati, uno scimmiottamento di ritorno? «No. Ci sono le nostre melodie e nel jazz siamo i più bravi del mondo; lo sa che il jazz è nato in Italia, grazie al siciliano Nick La Rocca?». Sarà vero filologicamente. Nell’Enciclopedia Britannica c’è scritto che lo champagne è nato in Inghilterra. Ma lo champagne rimane francese e il jazz americano. E però Arbore crede davvero che, anche grazie al jazz, possa rinascere il nostro Sud: «C’è un sud dove la mafia e la camorra non entrano». Per esempio? «A Taormina non c’è la mafia. A Capri non c’è la camorra. A Ischia, ad Amalfi, a Ravello… La camorra si ferma a Castellamare». Disarmati dalla bellezza? «Non lo so. Forse hanno soggezione. Potremmo ripartire da lì. Ma non diciamolo. Se no, anche questa volta, arriveranno prima di noi».

Francesco Merlo, la Repubblica 20/4/2014