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 2014  aprile 20 Domenica calendario

CINA CONTRO CINA


I PIÙ RICCHI
Il signor Wang Ling raffredda tubi. Operaio nell’acciaieria del villaggio, come suo padre. Al mattino, prima di raggiungere l’altoforno, fa un tuffo nella piscina che «mi invade il salotto fino al tavolo». Poi esce dalla sua villa, ci tiene a dire che misura quattrocento metri quadri, accende la Cadillac nera e va a fare colazione al Golf Club.
Lavora dieci ore filate, in un assordante inferno di fumi tossici. Prima di cena monta un’ora a cavallo con i compagni di reparto, nel silenzio del giardino, lungo il fiume. «Seguiamo la Borsa — dice — e scegliamo la sauna per la sera».
Morto Mao, Deng Xiaoping segnalò ai cinesi che anche «arricchirsi è glorioso». A Huaxi, anticipandolo, lo avevano già preso sul serio. All’ingresso del paese, un cartello avvisa: «Benvenuti nel primo posto sotto il cielo». Un segno di modestia per chi, nel 1950, decise di andare sopra il paradiso. I contadini di qui, signori del fertilissimo delta dello Yangtze, nel Jiangsu, erano 576. Raccolsero segretamente i risparmi di tutti e aprirono una fabbrica di concime. Missione: fare soldi. Ha funzionato.
Huaxi oggi è il villaggio più ricco della Cina e, credendo ai dati ufficiali, del mondo. Oltre che per nascita, qui si è ricchi per legge, ossia per ordine del partito. «Siamo duemila — dice Pey Huayu, cucitrice nel maglificio numero 82 — quattrocento famiglie. Ma ci sono uomini d’affari che offrono follie per acquistare il diritto di residenza». Comprensibile. Chi viene al mondo in quella che assicura di essere “la terra promessa del socialismo cinese” riceve una dote leggendaria: la famosa villa, una berlina, 250mila euro e olio da cucina per tutto l’anno. Sanità e istruzione sono gratis. A garantire questo tesoro è la Jiangsu Huaxi Jituan Gonsi, holding quotata in Borsa che controlla cinquantotto colossi industriali. «Lo scorso anno — dice il capo villaggio Wu Xieen — abbiamo fatturato 6,7 miliardi di euro, in calo per la crisi europea. Così abbiamo deciso di avviare nuovi affari, come gioielli e servizi». A possedere la chiave della cassaforte, tramite la banca locale, sono i residenti-lavoratori del paese. «L’unico villaggio del pianeta — dice l’avvocato Yuan Yulai — quotato nel listino, a Shanghai». Wu Xieen, ometto unto ma con una raffinata giacca di taglio britannico «che produciamo qui», è il figlio di Wu Renbao, dio di Huaxi. Fu lui a concepire l’utopia del borgo rurale capace di trasformarsi in potenza industriale grazie «alla collettivizzazione e alla compartecipazione». Il maoismo trapiantato nel capitalismo, gemma del folle consumismo asiatico. Programma di tre parole: «Ricchezza, salute, felicità». Il cielo ha concesso al signor Wu di morire vecchio, nel marzo di un anno fa. È stato sepolto come un imperatore. «Non uno è mancato al funerale — dice la fioraia Tan Minquan — lo abbiamo accompagnato al mausoleo con venti Rolls Royce e un elicottero. Al banchetto si è servita zuppa con pinne di squalo». Riconoscenza disinteressata. Ai suoi compaesani non ha lasciato solo la dote individuale e un reddito annuo di centomila euro, cifra che il cinese medio non guadagna in molte vite. Huaxi vanta anche una compagnia aerea con venti jet e quattro elicotteri, una flotta di velieri e un centro sportivo di livello olimpico. Le strade sono coperte di glicini per proteggere dai monsoni chi fa shopping. Per il 50esimo anniversario del miracolo, è stato inaugurato il raccapricciante International Hotel Longxi, 74 piani per 328 metri d’altezza. «È costato 490 milioni di dollari — recita Zhou Li, capo dell’agenzia turistica del villaggio — ed è il quindicesimo grattacielo più alto della Terra». Tre colonne di cristallo finiscono in una sfera d’oro. Al sessantesimo piano, un’altra tonnellata di oro massiccio, sotto forma di toro. Oltre l’albergo, vicino alla spianata delle ville hollywoodiane degli operai, tutte uguali, una in fila all’altra, sorge il “Parco del mondo”. Gli abitanti possono fare due passi tra le copie dei monumenti- simbolo del pianeta: Grande Muraglia e Città Proibita, non serve dirlo, ma anche Arco di Trionfo e Torre Eiffel, un Colosseo, un’Opera House di Sydney, castello di Sissi e Big Ben. La Statua della libertà, per risparmiare spazio, svetta direttamente dal tetto della Casa Bianca. «C’è poco tempo per viaggiare — dice l’amministratore del parco, Zhao Libao — ma la gente vuole vedere le cose. Ospitiamo tre milioni di turisti a stagione». Ciò che nessuno ufficialmente dice è il prezzo di nascere nel villaggio-laboratorio che il partito comunista ha condannato ad essere la prova fisica che il socialismo non è ostile alla ricchezza. Soldi e vita, a Hauxi, sono dati solo in concessione dalla holding che tutela gli interessi di tutti. I residenti lavorano sette giorni su sette e devono rispettare tre leggi: non andarsene, non licenziarsi, non sposare un forestiero. Chi viola questi comandamenti perde i poteri magici e diventa all’istante un povero cinese normale, come i ventimila migranti e i trentamila operai dei villaggi vicini, che per 350 euro al mese si consumano in fornaci e catene di montaggio del regno rosso. «La proprietà — dice il funzionario Zhu Zhixing — toglierebbe motivazioni e disponibilità al sacrificio. La crisi del capitalismo occidentale lo dimostra: appena diventa certo ed ereditario, il benessere finisce». La sfida del paese è avere tutto senza possedere niente. Come l’hotel a cinque stelle affittato a Pudong, il quartiere dello shopping globale più alla moda di oggi. Jet collettivi catapultano gli abitanti di Huaxi a Shanghai prima di cena. Fatti gli acquisti, dormono qualche ora nella sontuosa dependance metropolitana del villaggio e al mattino rientrano puntuali per il turno in fabbrica. «Le riforme economiche — esulta la propaganda — consentono di diventare milionari restando fedeli al partito e agli ideali socialisti». Duemila individui su 1,4 miliardi di cinesi. «Questo in effetti — dice Wu Xieen — è un dettaglio su cui c’è spazio per l’approfondimento».

I PIÙ POVERI
“Se i contadini sono contenti, l’impero è stabile”. Adempiendo a tale obbligo, da secoli dinastie e leader comunisti si sono assicurati il dominio sulla Cina. Improvvisamente non è più così e milioni di cinesi piombano nella disperazione. Sono passati dalla fame alla sussistenza, dalla schiavitù alla collettivizzazione, da Confucio a Mao. Mai però qualcuno li aveva strappati dai loro villaggi rurali per concentrarli nelle megalopoli del consumo capitalista. Hanno resistito a guerre e vinto rivoluzioni: vengono sconfitti dalla promessa del benessere, privati dei valori che hanno ispirato la loro vita. Nelle campagne abbandonate la gente fiuta l’incertezza, non si fida, non sa cosa fare. Chi non possiede la crudeltà, o l’età, per salire sullo scintillante missile del “sogno cinese” di Xi Jinping, precipita in una miseria ignota: al granaio vuoto si aggiunge il deserto culturale e spirituale.
«Qui — dice l’ex contadino Tang Rongbin — tenevo il maiale. Là avevo la risaia. Quassù c’era il pozzo scavato dagli avi. Questa terra è stata zappata milioni di volte, secondo regole precise, da ogni generazione. Siamo stati una famiglia felice».
Sugli spazi che indica, splende un cartellone elettronico con l’immagine di un grattacielo azzurro su un orizzonte rosso. Dice: “Godetevi la bella vita della città”. È alimentato da un generatore, il petrolio è fornito dal partito e produce l’unica luce elettrica della zona. Attorno, cumuli di macerie e un pugno di baracche di fango sbiancato. Sui tetti oscillano tegole rotte. Luotuowan, nella contea di Fuping, al confine tra Hebei e Shanxi, è presentato come il villaggio più povero della Cina. Reddito medio, sei euro al mese. Non ci sono mezzi meccanici, si fa tutto a braccia. Venti famiglie, come in un evo originario, sono affidate alle stagioni: carote, patate, polli, granoturco, maiali, uova, riso, miele. Poco di tutto. I sette bambini rimasti in paese vanno a scuola a piedi, o su un carretto: otto chilometri, scavalcando i cumuli di mattoni che segnano la posizione dove sorgevano le loro case. La terra è stata requisita dai funzionari di Pechino, decisi a «cambiare finalmente la mentalità della gente». Al posto di una stalla comune, stanno costruendo una fabbrica di asciugamani. Paga il governo, venti posti di lavoro, ma gli abitanti resistono. «Si sono ripresi i campi — dice Li Xueqing, coltivatore di cavoli — ma non dicono a chi andranno i soldi degli asciugamani». La svolta, in un giorno passato alla storia. Il 30 dicembre di due anni fa, al villaggio è comparso il segretario generale Xi Jinping, che tre mesi dopo è diventato il nuovo presidente della Cina. Ha visitato due famiglie, ha donato olio e farina per sette mesi ed è andato via. Tang Rongbin ha incollato la foto al muro, vicino a quella di Mao. Luotuowan è stato scelto come esperimento nazionale della lotta contro la nuova povertà rurale. La promessa è lo “ xiaokang”: benessere per tutti entro cinque anni. Così sono arrivate ruspe e colonne di camion. Migranti-operai eliminano le risaie e aprono strade, abbattono le case e alzano condomini, spianano i granai e costruiscono magazzini per acqua in bottiglia. Gu Runji, segretario locale del partito, assicura che al centro del villaggio, dove le Guardie Rosse bruciarono il tempio buddista, sorgerà «un cinema tridimensionale». Nessuno sa dire perché, ma in un anno sulla contea sono piovuti 1,2 milioni di euro. «I vecchi — dice il fabbro Duan Liang — al pensiero di come dividerli, di notte non dormono». Il problema è che l’inatteso tesoro di Stato non ricostruisce la prospettiva di vita che distrugge.
Nel 1978, quando Deng Xiaoping lanciò la Cina nel futuro, l’80 per cento dei cinesi erano contadini, sparsi in milioni di villaggi. Tre anni fa si è scesi per la prima volta sotto il 50 per cento. Xi Jinping oggi promette che entro vent’anni il 75 per cento della popolazione vivrà nelle nuove metropoli. Negli ultimi dieci anni sono scomparsi novecentomila villaggi rurali: ne restano dodicimila. Entro il 2025, Pechino sposterà dai paesi alle città 300 milioni di persone: oltre il doppio della popolazione della Russia. In campagna, come a Luotuowan, restano gli anziani, chi è malato e i neonati dei giovani emigrati nei distretti industriali. Perché, se il contadino cinese è stato condannato alla povertà e all’estinzione, investire per «cambiare la mentalità » a chi l’Accademia delle scienze definisce un «ramo secco»? «Il partito — dice il professor Li Huadong, capo del movimento di salvaguardia delle campagne — per resistere ha bisogno di una massa di forti consumatori, concentrati nelle città. È la legge del capitalismo. La millenaria Cina però, senza i villaggi contadini, è finita. Ideologie e religioni sono state travolte, il boom della crescita scava abissi di ingiustizia: la nuova leadership avverte che solo la cultura rurale alimenta l’identità popolare, essenziale per tenere ancora insieme questo Paese».
Luotuowan, da paese abbandonato, viene così trasformato in un museo-show della propaganda, con i suoi reperti e le sue comparse, mantenute per mettere in scena la patria degli avi. Li Xueliang, vicecapo del villaggio, ha pensato a tutto. Due giovani del paese, operai in una fabbrica di viti a Shunping, sono stati richiamati, dotati di computer e avviati all’e-commerce. Vendono cashmere della Mongolia Interna su “Taobao”, sito del gigante Alibaba. «Senza muoverci dal fienile — dice Tang Junfeng — serviamo già 470mila clienti». Il governo, per festeggiare il successo, gli ha regalato una berlina tedesca. Per ora non si è vista, è arrivata solo una chiave, i compaesani lo prendono in giro, ma non sono affatto contenti di vangare un campo di soia lontano e di sopravvivere grazie alla carità di Xi Jinping. Come altri 650 milioni di esclusi cinesi. Hanno capito di essere stati, per la prima volta, sconfitti: la stabilità dell’impero non dipende più dalla loro felicità.

Giampaolo Visetti, la Repubblica 20/4/2014