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 2014  aprile 20 Domenica calendario

CRESCITA OSTAGGIO DEL SUPER-EURO VACILLANO I TARGET BCE SUI PREZZI


Vola alto, troppo alto e questo volo leggero senza pause rischia di rivelarsi insostenibile. L’euro è arrivato a Pasqua con una quotazione ormai a ridosso di 1,39 sul dollaro. A questa altezza, è già sopra quella quota di 1,36 sulla quale i tecnici della Bce hanno disegnato il percorso che dovrebbe portare l’inflazione dell’eurozona almeno all’1,7 per cento per fine 2016. D’altra parte, la spinta al rafforzamento della moneta comune non è una tendenza di queste settimane. Negli ultimi sei mesi, l’euro ha guadagnato il 2,3 per cento sul dollaro, il 6 per cento sullo yen. Nell’arco del 2013 si è apprezzato del 5 per cento sul ventaglio di valute con cui intrattiene più fitti rapporti commerciali. E’ il contrario di quanto dovrebbe avvenire: la moneta forte è un veleno che deprime i prezzi dentro l’Europa e le esportazioni dall’Europa. Il problema è che è assai difficile che l’euro scenda da solo: i meccanismi in atto stanno, infatti, spingendo, semmai, in direzione opposta. E il risultato è il ritorno degli investitori americani e asiatici sui mercati europei, quelli dei vituperati titoli di Stato della periferia mediterranea compresi. Il caso più clamoroso è la Grecia, ma si segnalano anche consistenti flussi di acquisto sui titoli italiani, spagnoli e portoghesi.

L’ANALISI
A prima vista, parrebbe difficile lamentarsene gli stessi meccanismi che fanno volare l’euro sono frutto di una serie di azioni virtuose. A cominciare dagli effetti dell’austerità.
Sulla politica della cinghia stretta si sono rovesciate critiche durissime e molti la ritengono responsabile dell’attuale paralisi della economia europea. Ha, tuttavia, ripulito e rafforzato i bilanci pubblici. E il risultato è il ritorno degli investitori americani e asiatici sui mercati europei, quelli dei vituperati titoli di Stato della periferia mediterranea compresi.
La Grecia, dopo essere stata estromessa dai mercati nel 2010, alla sua prima emissione internazionale, nei giorni scorsi, ha visto richieste superiore di sette volte all’ammontare dei titoli offerti. Ma gli analisti della Bank of New York segnalano anche consistenti flussi di acquisto sui titoli italiani, spagnoli e portoghesi.
La conferma è il vistoso effetto sugli spread, nei confronti del rendimento dei Bund tedeschi. Tuttavia, non è solo affare di Btp e Bonos. Il fondo gigante Blackrock ha investito pesantemente nel Monte dei Paschi, dopo aver acquisito quote anche di Unicredit e di Intesa. Contemporaneamente, altri due pezzi da novanta — George Soros e la Pimco di Bill Gross — stanno intervenendo sul mercato immobiliare spagnolo. In generale, le antenne del gigante bancario svizzero Ubs, nell’ultima settimana, hanno registrato, nelle transazioni euro contro dollaro, la più alta prevalenza di acquisti di euro da due mesi a questa parte. Più nello specifico, sempre la Ubs dice che, negli ultimi giorni, 1,5 miliardi di dollari sono stati investiti nelle borse europee.
Gli effetti dell’austerità si incrociano e si sommano a quelli della sobrietà delle banche. Gli istituti di credito stanno restituendo a marce forzate i prestiti facili ottenuti, negli ultimi due anni, dalla Bce. Il risultato è che c’è meno liquidità in giro e questo spinge verso l’alto i tassi a breve, rendendo ancora più appetibile alla finanza internazionale, l’investimento in euro. Non basta, anche l’esercizio virtuoso degli stress test che la Banca centrale europea sta per far partire per dimostrare la solidità degli istituti di credito del continente finisce per rafforzare l’euro. Le banche europee, che avevano, ancora l’anno scorso, investimenti per 3 mila miliardi di euro nei paesi emergenti stanno facendo rientrare una quota cospicua di quei fondi per rafforzare i propri patrimoni di bilancio.
Ognuna di queste operazioni comporta acquisto di euro e, dunque, il rafforzamento della valuta europea. Ma le controindicazioni sono pesanti. E fanno del cambio una delle preoccupazioni principali dei protagonisti della politica europea, come dimostrano le inquietudini espresse, più di una volta, da Mario Draghi, ma anche i brontolii di alcuni governi europei, a cominciare da quello francese. Anzitutto per i rischi di deflazione. La valuta forte, infatti, significa prezzi (in euro) più bassi per le merci importate, a cominciare dal petrolio. Lo stesso Draghi ha riferito che, secondo i calcoli di Francoforte, un 10 per cento di apprezzamento del cambio si traduce in una minore inflazione, pari a circa 0,5 punti percentuali. Dato che, dal 2012, l’euro si è rivalutato dell’8 per cento, senza l’effetto cambio l’inflazione attuale sarebbe vicina all’1 per cento, invece che inchiodata allo 0,5 per cento di marzo. In altre parole, senza l’effetto cambio la spirale della bassa inflazione sarebbe meno minacciosa.
Ma un cambio alto penalizza, contemporaneamente, le esportazioni, che pure vengono indicate come l’arma principale per rilanciare la crescita: se l’euro è forte, ci vogliono più dollari per comprare la stessa merce. Non tutti, però, vengono penalizzati nello stesso modo: conta cosa esportano e a chi. Qualche mese fa, la Deutsche Bank aveva calcolato che l’industria tedesca resterebbe competitiva anche con un cambio di 1,79 dollari per euro. Ma l’industria francese avrebbe, invece, bisogno di un cambio a 1,24 euro. E quella italiana insegue il miraggio di un lontanissimo 1,17 dollari per euro.

Maurizio Ricci, la Repubblica 20/4/2014