Jenner Meletti, la Repubblica 20/4/2014, 20 aprile 2014
LA FORZA DI GIANGRANDE “UN ANNO DOPO HO ANCORA VOGLIA DI SOGNARE IL FUTURO”
[Intervista] –
MONTECATONE (BOLOGNA).
Meglio fare subito la domanda più difficile. Brigadiere Giuseppe Giangrande, qual è la sua speranza di futuro? «Vivere la vita», risponde. «Viverla per quello che mi può dare, anche se in maniera diversa». È passato quasi un anno, da quel 28 aprile 2013 quando il carabiniere è stato ferito al collo davanti a Palazzo Chigi, mentre Enrico Letta diventava presidente del Consiglio. Una vertebra spezzata, la paralisi dei quattro arti. «Tetraplegia da lesione midollare », la diagnosi scritta nella cartella clinica. La vita diversa del carabiniere Giangrande adesso è dietro la porta del Reparto acuti del Montecatone Rehabilitation Institute. «Per fortuna la gente non si è dimenticata di me, e nemmeno l’Arma. E questo mi riempie di gioia, mi aiuta davvero ad andare avanti. Anche stamattina sono venuti a trovarmi i colleghi del mio battaglione mobile Toscana».
Dovrebbe passare una giornata qui, Luigi Preiti, l’uomo che ha sparato e che dopo la condanna a 16 anni di carcere ha voluto pronunciare parole assurde. «Se potessi mi sostituirei al brigadiere Giangrande, per farmi carico della sua sofferenza». Toccherebbe con mano la sofferenza ma anche la forza di un uomo paralizzato che riesce ancora a parlare di «gioia». Lo vedrebbe al mattino in palestra, mentre un fisioterapista gli muove braccia e gambe. Lo vedrebbe sulla carrozzella dove riesce a stare al massimo un paio d’ore. Lo troverebbe steso nel letto per tutte le altre ore del giorno e della notte, obbligato a chiamare un assistente quando vuole cambiare canale in televisione.
Questo anno di Giuseppe Giangrande è stato tutto in salita e con cadute, come un Calvario. Il 18 dicembre era tornato nella sua casa di Prato, assieme alla figlia Martina. «Il brigadiere ha completato la fase riabilitativa ad alta intensità», annunciava il direttore dell’Unità spinale. «Ma il 4 gennaio – racconta la figlia Martina – abbiamo dovuto tornare in ospedale a Prato, per una polmonite. Poi è arrivata una forte crisi respiratoria, hanno dovuto intubarlo ancora,
fare una nuova tracheotomia… Il 5 febbraio siamo tornati qui a Montecatone, non più nella “degenza” come prima della partenza per casa nostra, ma nel reparto “acuti”. Solo io posso incontrarlo, e mi devo coprire e mettere la mascherina».
Per questo l’«intervista» viene fatta a distanza, con domande scritte e risposte portate fuori da questa ragazza gentile, forte come una roccia, che aveva già perso la madre e dice semplicemente: «Adesso, di mestiere, faccio la figlia». Brigadiere Giangrande, cosa guarda in tv? «L’informazione, soprattutto. Guardo i telegiornali. Voglio sapere cosa succede in Italia e nel mondo, anche se sono qui nel mio letto». Ha visto gli incidenti di Roma? «Certo. Avrei voluto essere lì con la mia squadra, per intervenire nel modo più giusto e professionale. A volte le cose degenerano. I carabinieri e le altre forze dell’ordine hanno il compito di impedire che i manifestanti accedano a zone dove non possono entrare. Gli scontri avvengono perché c’è chi non rispetta questi limiti e così non rispetta nemmeno se stesso».
Qualcuno sosteneva che l’uomo che le ha sparato poteva essere soltanto un pazzo. «Non è matto. Non ho mai avuto nessun dubbio, nemmeno nei primi attimi, quando lui mi chiedeva di passare oltre le transenne ».
Nei pochi giorni a Prato, a casa sua prima di Natale, il brigadiere aveva raccontato – in un colloquio con Il Tirreno – l’attacco davanti a Palazzo Chigi. «Quello che mi ha sparato è uno che in un momento molto delicato per il nostro Paese voleva passare alla storia. Sono convinto che Preiti volesse fare una strage perché aveva dieci colpi nel caricatore e trenta in tasca. Voleva passare alla storia facendosi uccidere, ma i miei colleghi l’hanno immobilizzato. Nella mia squadra non ci sono sceriffi. Non c’è stato un finale all’americana, con i poliziotti che sparano contro chi ha impugnato l’arma contro un loro compagno».
La sveglia arriva presto, sulla collina di Montecatone. Colazione, poi un’ora e mezzo di palestra. Pranzo alle 12.30. Oggi pasta con i funghi e pollo arrosto. «È un pastasciuttaro. Gli piace – racconta Martina – la cucina emiliana, tortellini soprattutto. Era stato qui un mese, dopo il terremoto del maggio 2012, per vigilare i paesi distrutti». Palestra anche dopo pranzo, quando ci sono le forze. «Il corpo non mi segue, non mi viene dietro, mi stanco troppo». «Io gli dico: babbo, non avere fretta, bisogna fare un piccolo passo alla volta. Per fortuna sente attorno a sé una grande solidarietà. Il comandante generale dell’Arma dei carabinieri è già venuto a trovarlo a febbraio ed è tornato per gli auguri di Pasqua. Io ogni tanto faccio rivedere a papà il tweet mandato da Enrico Letta nelle sue ultime ore a Palazzo Chigi. «Ultimo di 300 giorni tutti difficili. La dedica è per Giangrande. Un abbraccio fortissimo a lui e a sua figlia». «Ma è vero?» mi ha chiesto il babbo. «Non è uno scherzo?». E mi ha detto: io ed Enrico Letta in qualche modo ci siamo legati. Sono stato colpito mentre lui saliva nel Palazzo. È un destino che ci ha portati a farci conoscere. È venuto a trovarmi anche in ospedale. Mi dispiace che non sia più premier». Come negli altri ospedali, cena alle 18. «Dopo resta soltanto la televisione. Ma quando arrivo al mattino e gli chiedo cosa ha guardato, lui mi risponde: “Un occhio si è chiuso alle 20, l’altro alle 21,30. Insomma, mi sono addormentato”. Certo, parliamo spesso del futuro. Spero che presto potremo tornare a casa nostra, a Prato. La mia speranza è che, con la riabilitazione, lui possa recuperare almeno l’uso di una mano. Con le macchine che ci sono adesso, potrebbe avere un minimo di autonomia». Non potrà tornare in reparto, il brigadiere Giangrande, nella sua «vita diversa». Ma forse riuscirà a spiegare ai suoi ragazzi, come faceva prima, che «il nostro non è un mestiere ma una passione», e che non si fatica solo per lo stipendio ma per dare una mano al Paese. Un ultimo biglietto affidato alla figlia. «Brigadiere Giangrande, 35 anni di servizio. Qual è stata la cosa più bella, nel suo mestiere di carabiniere? ». La risposta è di due parole. «Essere carabiniere».
Jenner Meletti, la Repubblica 20/4/2014