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 2014  aprile 20 Domenica calendario

MA IL PIANO-RIFORME NON CONVINCE LA UE


Renzi, il campione dei tweet e delle slide, sa che niente funziona meglio di un testo conciso e concreto per dare l’idea del cambiamento. Non è dunque stata piccola a Bruxelles la sorpresa, la settimana scorsa, quando l’atteso “Piano nazionale di riforme” dell’Italia è atterrato nella poco renziana taglia di 700
pagine.
I casi sono due, ci si è detti nei corridoi comunitari. O sarà impossibile attuare tutti quei propositi, anche con un mandato elettorale e una maggioranza in parlamento più chiari di quelli di Renzi. Oppure dietro al piano italiano non c’è convinzione, ma solo la fretta di sbrigare un’incombenza europea copiando e incollando vecchi testi. Senza cambiare verso, senza dargliene uno. Senza riforme credibili, benché vengano accampate per rinviare la correzione dei conti pubblici. L’impressione a Bruxelles è stata spiazzante e gli indizi del crescente sospetto con cui dal resto d’Europa si guarda all’Italia iniziano ad affiorare.
Lo si è visto nei giorni scorsi, quando Pier Carlo Padoan ha scritto al vicepresidente della Commissione europea Siim Kallas. Quella del ministro dell’Economia era una lettera con una piccola dose di esplosivo, perché per la prima volta un Paese annuncia ufficialmente che non rispetterà i vincoli di bilancio del Fiscal Compact nuovi di zecca. Il pareggio di bilancio “strutturale” (comunque un deficit reale) slitta già dal 2015 al 2016. Al ministro Padoan, rango politico nel governo, Kallas non ha neppure risposto da pari a pari: gli ha fatto scrivere da Marco Buti, funzionario a capo della direzione economico-finanziaria. E anche la lettera di Buti contiene un congegno detonatore, perché annuncia che la Commissione Ue risponderà alla richiesta dell’Italia “il due giugno”. Subito dopo le elezioni europee, giusto per non turbare la campagna elettorale. Nel frattempo però la Commissione si è fatta dare i poteri di chiedere correzioni ai governi già in luglio, non appena sarà insediata la nuova squadra di Bruxelles.
Per il governo Renzi non sarà una passeggiata. Il premier si è convinto — lo dice in privato — che per l’Europa oggi “il problema è la Francia, non l’Italia”. Eppure nel rapporto con Bruxelles e le capitali che contano qualcosa no funziona. È come se le comunicazioni fossero regredite a livello quasi solo formale. Il terreno per la lettera di Padoan, malgrado il suo forte impatto, è stata preparato solo da una chiacchierata dello stesso ministro a Washington durante gli incontri del Fondo monetario. Non ci sono quasi altri canali di vero dialogo con l’Europa se non lui, che però è bloccato sui suoi compiti al Tesoro e comunque a Washington la scorsa settimana ha percepito il sospetto dei colleghi riguardo piani del governo. Né aiuta che Carlo Cottarelli, un’altra figura molto nota all’estero, abbia palesemente rapporti difficile con il premier. In qualità di commissario alla spending review, Cottarelli avrebbe dovuto trasferirsi dal Tesoro a Palazzo Chigi già da settimane, a credere agli annunci. Poi però non l’ha mai fatto.
Questi segnali in Europa non sfuggono. A Parigi, Berlino e Bruxelles è ormai unanime la convinzione che quella sul bonus da 80 euro sia poco più di uno zuccherino elettorale. Non parte di una strategia coerente per rimettere l’Italia in condizioni di crescere dopo un ventennio di stagnazione e crollo dell’economia. Fra i funzionari della cancelleria tedesca il premier è stato soprannominato “Silvio Renzi”, in Germania è una sorta di anatema. Ai vertici delle strutture francesi c’è chi si riferisce a lui come “un furbetto” e un “florentin”, fiorentino, cioè un operatore machiavellico: così veniva definito anche il presidente François Mitterrand, ma senza il cliché di inaffidabilità italiana che Renzi chiaramente evoca.
Possibile che al premier non dispiaccia essere un po’ in freddo con l’Europa: Mario Monti, François Hollande a Parigi o George Papandreou in Grecia hanno già dimostrato come buoni rapporti con Bruxelles possono costare voti a casa. Ma è una strategia con alcuni rischi concreti. Non c’è solo il calendario del Fiscal Compact, per quanto esso sia stringente: in estate l’Italia rischia una bocciatura sul piano di riforme e il rinvio del pareggio, che può obbligarla a rivedere la manovra; e in autunno rischia una procedura per debito o deficit eccessivo che, con il Fiscal Compact, diventa di fatto una messa sotto tutela. Poi c’è una partita anche più seria. In settimana alla Banca centrale europea si sono definiti i criteri con cui le banche saranno sottoposte in estate agli stress test, le “prove di sforzo”. Fra gli istituti 15 sono italiani. L’obiettivo di fondo è vedere quanto le banche possono resistere a un’altra crisi sui titoli di Stato, di cui le aziende di credito in Italia hanno pieni i bilanci. Se dopo gli “stress test” l’Europa chiederà di rafforzare il capitale delle banche oltre quanto può dare il mercato, il governo dovrà fornire le risorse. Chi ha tassato le banche per dare 80 euro ai cittadini, presto può dover tassare i cittadini per dare decine di miliardi alle banche. Non è un’ipotesi peregrina: più un Paese attrae sfiducia, più l’esame sulle sue banche sarà severo e il risultato negativo. Ascoltare un po’ di più l’Europa può costerà anche dei voti, ma può anche far risparmiare parecchi soldi agli italiani.

Federico Fubini, la Repubblica 20/4/2014