Raffaella Procenzano, Focus 5/2014, 22 aprile 2014
LA FORMULA DEL POTERE
Una madre, un padre, i figli che devono ubbidire... questione di potere. A scuola davanti a un prof... questione di potere. La distribuzione degli spazi in un luogo di lavoro... questione di potere. L’organizzazione di uno Stato... questione di potere.
L’umanità ha fondato la propria struttura sociale sul potere. E grazie alla creazione di gerarchie ha potuto progredire. Parola di antropologi, psicologi, storici.
DESIDERIO DI RIVALSA. «L’idea stessa del potere è naturale, connaturata al nostro cervello. Perché ha origine nel rapporto genitore-figlio. Tutti nascono in condizione di dipendenza, ma negli animali questo rapporto di disuguaglianza ha una durata limitata, mentre nell’uomo, che ha un periodo lungo di apprendistato, influenza tutta la crescita» spiega Paolo Pombeni, docente di Storia dei sistemi politici europei all’Università di Bologna. È la teoria psicanalitica sul potere: il bambino si sente cioè impotente e questo gli dà un gran desiderio di rivalsa. Vuole quindi affermare se stesso, e dimostrare che anche lui può indurre altri a fare quello che vuole. «Da questa condizione di dipendenza dai genitori è probabilmente derivata l’idea che la divinità, in quanto madre (o padre) dell’umanità, sia depositaria del potere e che quindi possa a sua volta, proprio come fa un genitore con il figlio una volta cresciuto, concederla all’uomo» continua Pombeni.
Gli psicologi sociali, del resto, ritengono che tutte le relazioni umane, sia a livello personale, sia di gruppo o tra gruppi diversi siano regolate dai rapporti di potere. Ma che cosa si intende, esattamente, quando si parla di potere? Le definizioni sono tante. Per il sociologo e professore emerito alla New York University Dennis Wrong «il potere è l’abilità di produrre negli altri gli effetti desiderati e previsti». Secondo Robert Alan Dahl, studioso di scienze politiche, oggi professore emerito a Yale, «il potere è la capacità di far comportare qualcun altro come da solo non avrebbe fatto». Per il sociologo Usa Robert Bierstedt «il potere non è altro che l’abilità di impiegare la forza».
Tutte le definizioni comunque arrivano alla stessa conclusione: il potere sociale è l’abilità di stabilire relazioni asimmetriche nelle quali chi comanda prevale su singoli o gruppi di persone.
E molti studiosi distinguono tra potere coercitivo e potere gestito con il consenso (implicito o esplicito) di coloro sui quali viene esercitato. Non a caso, lo psicologo tedesco Kurt Lewin (1890-1947) definì il potere con una formula. Per lui, è pari alla massima forza che A può esercitare su B, divisa per la massima resistenza che B può opporre ad A.
DA DIO ALLA LEGGE. Il concetto di potere sociale è però molto cambiato nel corso della storia. Per le prime civiltà, il potere era di origine divina ed era inteso come dono che gli dèi fanno a uno o più mortali (idea del resto rimasta in voga fino alla Rivoluzione francese). Ma già dal VII-VI secolo avanti Cristo, in Grecia, il potere non poteva essere assoluto, arbitrario: doveva essere esercitato all’interno di leggi codificate. Epicuro negava addirittura l’origine divina del comando. L’avvento del cristianesimo però ripristinò l’idea di un regnante benedetto da Dio e quindi legittimato a fare il bello e il cattivo tempo. Solo con il Rinascimento e gli scritti di Machiavelli (Il Principe), cominciò la decisa separazione tra politica, morale e religione. «Il potere è stato antropocentrico, cioè in mani umane, fino al XVII secolo, quando la filosofia politica si è posta il problema di limitarne l’arbitrio» chiarisce Pombeni. «E finalmente nel 1830 i giuristi tedeschi hanno dato per primi la sovranità al concetto di Stato e quindi di popolo. Tutto questo per evitare che il potere venisse identificato con una sola persona».
UOMINI FORTI. Allora perché gli aspiranti dittatori (anche in tempi recenti) non hanno avuto troppe difficoltà a prendere il potere? Secondo Jean Lipman-Blumen, psicologa delle organizzazioni all’Università di Claremont (California), nei momenti di crisi le persone tendono ad affidarsi ciecamente a una figura che appare capace di risolvere problemi altrimenti insolubili. Per Franz Neumann, uno degli storici che si sono occupati dell’ascesa e della conservazione del potere delle dittature di inizio Novecento, per quanto tutti i dittatori abbiano cercato di alimentare un timore reverenziale nei sudditi, a tenerli al comando è stata soprattutto la speranza, diffusa nel popolo, che questi uomini forti potessero liberarli dalla miseria e dal senso di disperazione.
Un meccanismo simile è stato verificato anche “in laboratorio”: nello studio carcerario della Bbc, i partecipanti avevano smantellato il sistema di potere in cui le guardie comandavano sui prigionieri e ne avevano instaurato uno egualitario, nel quale un collettivo guidava una comunità formata sia dai carcerati sia dai loro custodi. Eppure, dopo poco, alcuni membri riproposero un rigido sistema gerarchico che ripristinava le disuguaglianze. «Abbiamo chiesto ai partecipanti perché fosse successo, e molti ci risposero che far funzionare il collettivo era faticoso, e che il gioco non valeva la candela» racconta Alex Haslam, ricercatore della School of Psychology presso la University of Queensland (Gran Bretagna), uno dei curatori dello studio. La tendenza a lasciare la responsabilità a qualcun altro nelle situazioni incerte è uno dei meccanismi che, oggi come ieri, sostengono il potere.
IDENTIFICARSI NEL CAPO. Ma ce n’è un altro, ancora più importante: «Oggi non è possibile guidare un gruppo di persone se l’autorità non viene riconosciuta dai sottoposti, che si identificano nel loro capo fino a considerarlo “uno di loro”» aggiunge Haslam. Del resto, il potere poteva contare sul consenso anche in passato: «Il potere preso totalmente con la forza bruta non esiste. E se esiste, dura poco» rincara Pombeni. «Perfino nei più antichi regimi assoluti, gran parte dei sudditi pensava che davvero quel regnante aveva diritto di comandare. Non era ancora come pensare di essere “rappresentati” dal capo, ma a quell’epoca la differenza sociale tra il suddito e il re investito del suo ruolo da Dio era incolmabile».
Insomma, specialmente oggi che il sistema democratico fa parte del nostro modo di pensare, a portarci a seguire qualcuno, a sposarne le idee, in pratica ad accettare che un’altra persona possa guidarci, è soprattutto la constatazione che questo capo è “uno di noi”. Funziona così in famiglia, sul lavoro, in politica.
Lo provano molti esperimenti, come quello ideato da Michael Hogg, professore di Psicologia sociale all’Università di Claremont (California), durante il quale alcuni studenti dovevano scegliere quale opinione seguire su un problema che riguardava tutti (l’introduzione di esami di accesso all’università). Risultato: indipendentemente da quale fosse l’opinione, gli studenti seguivano l’idea propugnata da chi riconoscevano simile a loro stessi (stessa età, stessa provenienza).
Il potere di crearsi un seguito, quindi, come la bellezza, starebbe soprattutto negli occhi di chi guarda.
LA DOMINANZA. Gli antropologi sono d’accordo. Ma solo in parte. Per loro, al nucleo del potere c’è un meccanismo biologico ancestrale: il rapporto di dominanza tra gli individui. Il cosiddetto “tipo dominante”: alto, spalle larghe, mascella quadrata, ha in genere più successo. Alcune di queste caratteristiche somatiche sono legate a quantità leggermente più alte della media del testosterone, ormone presente sia negli uomini che nelle donne. In tutti i mammiferi, del resto, l’individuo dominante ha tassi più alti di questo ormone nel sangue. Gli uomini più testosteronici, per esempio, ha provato anni fa una ricerca condotta dallo psicologo Usa James Dabbs, entrano più velocemente in una stanza in cui sanno di trovare persone sconosciute e cominciano prima a conversare con loro. Il potere non è solo un gioco per adulti. Recenti studi condotti su bambini molto piccoli da Nathan Fox, un ricercatore dell’Università del Maryland, dimostrano che già a 4 mesi alcuni individui sviluppano abilità sociali sorprendenti, interagendo sia con adulti sia con coetanei in modo “assertivo”. Danno cioè l’idea di sapere che cosa vogliono e come ottenerlo. Il potere si manifesta in culla.
Raffaella Procenzano