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 2014  aprile 19 Sabato calendario

LA CAVOLATA DI BRUXELLES


Y=L(a)*K(1-a)*Tfp
Questa formula matematica vale 15 miliardi di euro, un punto di Pil. Farebbe dormire sonni tranquilli al governo, a 60 milioni di italiani che non ne possono più dell’austerità, leverebbe argomenti ai fautori dell’uscita dall’Euro. Non è la formula della pietra filosofale, quella che trasformava il piombo in oro. Ma poco ci manca.
Quella che vi facciamo vedere è la formula che permette di calcolare il Pil potenziale dell’economia italiana. E se avrete la pazienza di seguirci in questo racconto – che non può fare a meno di alcune tecnicalità – scoprirete che strano posto è oggi l’Europa: un continente nel quale un astruso modello matematico, collegato all’applicazione di un trattato, può decidere il destino di milioni di cittadini, il loro salario, il loro welfare. Una formula, tra l’altro, che ha una base statistica e l’ardire di prevedere il futuro. Sicura quanto gli exit poll nelle elezioni politiche. Eppure – paradosso dei paradossi – sull’interpretazione di questi segni si basa parte della strategia del ministro Pier Carlo Padoan e del premier Matteo Renzi per far cambiare rotta a Bruxelles e far uscire il Paese dalla spirale austerità-recessione. Questa formula, a detta di molti centri studi – e anche il Tesoro lo ammette – viene interpretata dalla Commissione Ue in maniera «non neutrale», «teoricamente mal specificata», sostiene uno studio del Centro Europa ricerche. Errori che pesano direttamente sulle manovre economiche del governo. Una pietra filosofale al contrario, che trasforma l’oro in piombo.

LA FORMULA DELL’AUSTERITY
Di che si tratta, vi chiederete? In sintesi: la Y è il prodotto lordo potenziale come viene calcolato dalla Commissione europea. Cioè il Pil che l’Italia potrebbe avere se tutto andasse liscio, se non ci fosse la più grave recessione che la storia ricordi e il Paese utilizzasse al massimo le sue risorse produttive. Il prodotto potenziale è una semplice moltiplicazione tra il lavoro (L), il capitale (K) e i fattori di produzione (ovvero la capacità di saper mescolare – bene o male – quei fattori). Per quale motivo fare un calcolo del Pil di un Paese immaginario, di un mondo parallelo? Perché sulla base di questo l’Europa calcola il cosiddetto output gap, ovvero la differenza (il gap) tra la crescita (output) di oggi e quella che potrebbe esserci se la crisi, magicamente, finisse. L’output gap serve a calcolare un dato fondamentale, che entra nel famigerato fiscal compact, il trattato europeo che ci impone stringenti criteri di bilancio.
È il cosiddetto deficit strutturale. L’Italia ha preso con l’Ue l’impegno (chiamato tecnicamente Mto, obiettivo di medio termine) a raggiungere il pareggio di bilancio in termini strutturali. Per intenderci: il deficit “reale” è quello della famosa regoletta del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil (l’Italia può fare ogni anno nuovo debito al massimo per il 3 per cento del suo intero prodotto, e ogni punto vale circa 15 miliardi). Raggiungere il pareggio di bilancio in termini reali è una missione impossibile anche per economie molto più solide della nostra. Quindi l’Europa ci fa un favore e ci pone un obiettivo più alla nostra portata: far quadrare i conti, certo, ma “al netto della crisi”, come se la recessione non ci fosse. Come dire che una famiglia chiede in banca un prestito, ma solo perché il capofamiglia è in cassa integrazione: quando la crisi finirà quel debito sarà facilmente sanabile, la banca può stare tranquilla.
Oggi il deficit reale è del 3 per cento, quello nominale dello 0,6. Il governo Renzi, nel recente Def, ha chiesto tempo al Parlamento e all’Europa fino al 2016 per raggiungere l’obiettivo (meta che il governo Letta voleva raggiungere già nel 2013). Se non gli sarà concesso, l’Italia dovrà immediatamente tagliare circa 7 miliardi di spesa pubblica (o imporre altrettante nuove tasse). Per fortuna l’ennesimo salasso sarà probabilmente rimandato (d’altronde negli ultimi 5 anni l’Italia ha effettuato manovre per ben 65 miliardi di euro, un ulteriore intervento potrebbe essere il colpo di grazia per la nostra economia). La manovra è solo posticipata, però. Alla tagliola Ue non si scappa.
Ma siamo sicuri che l’Europa abbia ragione a continuare a trattarci come alunni discoli? Per molti ricercatori in realtà il Belpaese ha già raggiunto il suo obiettivo. Basterebbe rifare i conti, eliminando quello che gli economisti del Centro Europa ricerche chiamano “il baco di Bruxelles”, per dimostrare che la meta è già stata raggiunta. O addirittura, nella migliore delle ipotesi, è stata di gran lunga superata. In altre parole, l’Italia ha già vinto la sua sfida, solo che Bruxelles non vuole ammetterlo.

LA “GIUSTA” DISOCCUPAZIONE
E qui ci tocca fare ancora un passo indietro, tra le formule usate dai funzionari dell’Output gap working group, la struttura tecnica che a Bruxelles calcola la misura della crescita potenziale. Nella formuletta magica il fattore L (lavoro) viene calcolato a partire dalla disoccupazione di equilibrio (Nairu): secondo un principio elementare dell’economia esiste una relazione diretta tra valore dei salari e disoccupazione, facilmente intuibile (più disoccupati ci sono, più bassi saranno i salari; se i disoccupati sono pochi, invece, i lavoratori chiederanno stipendi più alti). Bene, la disoccupazione di equilibrio è quella che tutti vorrebbero avere, perché non produce una crescita dei prezzi. Questo dato cambia di Paese in Paese, influenza direttamente la crescita potenziale e quindi modifica il deficit strutturale, quello su cui pende la tagliola di Bruxelles. L’Ue ha fissato il nostro Nairu al 10,4 per cento nel 2013 e al 10,8 per cento nel 2014. È un numero altissimo: come se fosse immaginabile un capo del governo che dice agli italiani: “Evviva, non abbiamo problemi di inflazione perché 3 milioni di voi non hanno lavoro”. I disoccupati italiani, quel premier, li troverebbe tutti – e assai arrabbiati – sotto il suo ufficio a Palazzo Chigi. Per fortuna è solo un numero. O meglio, una stima.
Perché i parametri da cui è ricavato il Nairu – scrive il Tesoro nell’ultimo Def – «sono particolarmente soggetti a discrezionalità». La disoccupazione di equilibrio, ci dice infatti una fonte tecnica del Tesoro, «dipende da parametri che variano notevolmente nel caso in cui si preveda un punto di svolta del tasso di disoccupazione come per esempio accade nel Def italiano e non nelle previsioni della Commissione». D’altronde – spiegano ancora da via XX Settembre – «la metodologia è comune a tutti i Paesi europei, e pertanto potrebbe non adattarsi pienamente al caso specifico italiano». Il Nairu previsto dall’Ue, in definitiva, potrebbe essere «sovrastimato», con un effetto – secondo il Tesoro – «particolarmente rilevante per noi, perché potrebbe produrre un deficit strutturale più alto».
Il ministero dell’Economia si è accorto che qualcosa in questa stima non andava nell’autunno del 2012, quando le previsioni sul Nairu prodotte dall’Ue hanno avuto una repentina impennata (si è passati dall’8 al 10 per cento circa). La differenza non è di poco conto: secondo uno studio del Centro Europa ricerche se l’Europa avesse stimato per l’Italia un Nairu di circa l’8 per cento – come fino all’inizio del 2012 – oggi potremmo vantare un surplus strutturale dello 0,3 per cento del Pil, invece che un deficit dello 0,6. Altro che debiti, l’Italia sarebbe in attivo. La differenza tra le due stime è di quasi un punto di Pil, ben 15 miliardi di euro.
Ed eccoci alla formuletta da cui è partito il nostro articolo: una diversa stima del prodotto potenziale permetterebbe al governo, ad esempio, di raddoppiare il taglio del cuneo fiscale. Non 80 ma 160 euro al mese in busta paga. E non è una previsione basata sul nulla, se persino un’organizzazione come l’Ocse – diretta per anni dall’attuale ministro Padoan – parla per il 2013 di un surplus strutturale dello 0,3 per cento. In pratica uno strumento di misurazione concepito per contrastare la crisi economica, messo nelle mani dell’Ue, è diventato prociclico: rende ancor più forte la crisi. E rafforza le politiche di austerità.

STATISTICHE AL POTERE
«L’econometria è una procedura statistica, contiene la possibilità di sbagliare, e l’uso di un buon modello riduce la possibilità di errori», spiega Stefano Fantacone, direttore del Centro Europa Ricerche, a capo di un gruppo di lavoro che ha sollevato nell’opinione pubblica un problema di cui, nel Tesoro, si discute riservatamente da molti mesi. «La domanda da porsi è questa: è giusto che un modello econometrico, un dato “non osservabile”, decida la politica economica di un Paese, non solo nell’impostazione ma anche nella misura esatta?». La domanda è retorica: «Assolutamente no, questo è un problema di democrazia economica», spiega Fantacone. Ma purtroppo l’Europa funziona così: «Si affidano alle tecnicalità problemi prettamente politici. Ma i tecnici sanno già dove vogliono arrivare, ogni modello econometrico si basa su una diversa impostazione teorica, che influenza i dati oggettivi».
La questione è nuova in Italia, ma non lo è nel resto del Continente. Lo scorso settembre il governo di Madrid fece arrivare i suoi strali all’orecchio della Commissione Ue, contestando proprio l’output gap calcolato da Bruxelles nell’estate 2013. Subito dopo il Working group – a dirigerlo è un funzionario belga, di nome Igor Lebrun – annuncia una revisione delle stime. «Questo permetterà di aumentare la crescita potenziale della Spagna, e quindi ridurre il deficit strutturale», dichiara Lebrurn al Wall street journal. Sul suo blog sul New York times, il Nobel Paul Krugman plaude alla decisione di Bruxelles: «I metodi standard per stimare il potenziale economico stanno funzionando molto male in questa crisi. Troppo spesso i funzionari hanno interpretato la crisi come “strutturale”, dunque qualcosa che può essere risolto solo attraverso riforme dolorose». Ma la sortita spagnola non produce effetti, e Bruxelles torna sui suoi passi: appena un mese dopo, a ottobre, il portavoce della Commissione Simon O’Connor dichiara che «la metodologia attuale continuerà a essere utilizzata». La conseguenza? L’output gap di Madrid scende dal 5,1 del 2013 al 3,1 del 2014, allontanando ancora l’obiettivo del pareggio di bilancio. Il Nairu stimato dall’Ue per Madrid è tale da gelare il sangue: 23 per cento. Renzi avrà più fortuna di Rajoy? O dovrà anche lui soccombere all’oscuro potere delle formule magiche recitate dai funzionari di Bruxelles?