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 2014  aprile 19 Sabato calendario

IL MONDO ROVESCIATO DELL’OMEOPATIA


Il bambino ha pochi mesi e la tosse non passa. Notti insonni. Preoccupazione. Poi la visita dal pediatra che prescrive uno sciroppo. Omeopatico, «uno dei pochi che possiamo usare per bambini così piccoli», dice il medico. La mamma non è completamente digiuna di medicina. È perciò scettica: lo sciroppo non ha un foglietto illustrativo, sulla confezione non c’è un’indicazione specifica. Anzi, esplicitamente viene dichiarato «senza indicazioni terapeutiche approvate». In compenso è esplicitato il lungo elenco di sostanze alla base del prodotto: Pulsatilla, Rumex crispus, Bryonia, Ipeca e così via. Sono quasi tutte piante, ricordano le pozioni magiche delle fiabe, quelle che le streghe preparavano nei pentoloni fumanti.
In realtà, di quelle sostanze, nel flacone di sciroppo c’è ben poco. La concentrazione della Pulsatilla è per esempio di una goccia ogni mille miliardi di gocce, quella della Bryonia è di una goccia ogni milione e lo stesso vale per gli altri principi attivi. Ma questo è uno dei cardini dell’omeopatia: la diluizione o la cosiddetta “Legge delle dosi infinitesimali”, un principio secondo cui quanto più piccola è la dose di sostanza attiva presente in un rimedio omeopatico tanto maggiore sarà l’efficacia per il trattamento di uno specifico disturbo.
Nasce così un rimedio omeopatico, per diluizioni successive: una goccia della sostanza attiva e 99 di acqua agitati un numero definito di volte (in un processo che viene definito succussione). Una diluizione, poi un’altra e un’altra ancora. Per un numero di volte indicato in quella sigla che chi ricorre alla medicina omeopatica conosce bene: CH (diluizione Centesimale di Hahnemann, dal nome del medico tedesco che tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento pose le basi dell’omeopatia). Di diluizione in diluizione il principio attivo si riduce, fino a scomparire del tutto oltre la dodicesima diluizione, dicono le leggi della fisica e della chimica.
Parte da qui, dalla più semplice delle domande, il viaggio nel mondo sottosopra dell’omeopatia: come può un preparato che contiene soltanto acqua, zucchero o alcol (gli eccipienti) avere un qualche effetto sulla salute?
Per chi cerca risposte non è semplice trovarle. La scienza, quella ufficiale, il più delle volte nega qualunque efficacia ai rimedi omeopatici: il nulla in essi contenuto non può avere nessun effetto, dicono. I sostenitori di questa forma medica alternativa (o complementare se si preferisce), invece, sono fedeli al mantra che un rimedio usato da milioni di persone e prescritto da migliaia e migliaia di medici non può che essere efficace. Soprattutto, però, credono al corpus di teorie su cui l’omeopatia si fonda.
«Una teoria basata su una fisica e una chimica che non sono nostre», dice Gaetano Di Chiara ordinario di Farmacologia all’Università degli studi di Cagliari e membro del Gruppo 2003, che raccoglie gli scienziati italiani più citati nelle ricerche dei colleghi nel mondo. «Per accettare le loro spiegazioni dovremmo vedere il mondo in maniera diversa».
Hahnemann e molti altri dopo di lui hanno capovolto infatti molti dei principi che siamo abituati a dare per scontati costruendo un corpus teorico via via più complesso che si basa su una legge cardine (quello a cui l’omeopatia deve il suo nome): per curare una persona bisogna somministrare la sostanza tossica che è in grado di provocare gli stessi sintomi della malattia da cui è affetto.
Questa sostanza, infatti, data a dosi infinitesimali potrà risvegliare «la forza vitale del malato» inducendolo all’autoguarigione. Così, se la puntura dell’ape provoca sintomi come il dolore, il bruciore e il classico edema, allora il medicinale omeopatico “Apis mellifica” (ottenuto macerando in alcool o triturando l’ape intera) può curare vari tipi di eruzioni cutanee caratterizzate dagli stessi sintomi, come l’orticaria, l’eczema o l’eritema solare.
Ciò avviene anche se le innumerevoli diluizioni a cui è sottoposto il principio attivo lo faranno di fatto scomparire fisicamente dalla soluzione: le sue proprietà, secondo le teorie omeopatiche, rimangono infatti impresse nell’acqua in cui esso è disciolto poiché l’acqua è in grado di immagazzinarle attraverso fenomeni elettromagnetici.
Nulla di ciò è stato dimostrato dalla scienza ufficiale. Anzi, gli esperimenti che alla fine degli anni Ottanta si erano candidati a provare la teoria della memoria dell’acqua si sono rivelate una frode bella e buona. Così, molti dei sostenitori dell’omeopatia preferiscono affermare candidamente che le nostre attuali conoscenze non sono in grado di spiegare il suo meccanismo di funzionamento. L’omeopatia funziona e basta.
Ma è così? La medicina convenzionale, dopo secoli di scetticismo e totale chiusura, si è mostrata disponibile alla possibilità che l’omeopatia possa avere qualche effetto. Ha perciò sottoposto i rimedi omeopatici alle stesse procedure sperimentali a cui si sottopongono i farmaci convenzionali. A fare un giro su Pubmed, il più grande database mondiale delle pubblicazioni scientifiche biomediche, ci sono circa 5000 pubblicazioni che hanno a tema l’omeopatia e che ne valutano gli effetti su una gamma sterminata di condizioni. Troppe e con risultati troppo discordanti per trarre conclusioni. Per fare ordine la Cochrane Collaboration, un’organizzazione no-profit nata con lo scopo di raccogliere, valutare criticamente e diffondere le informazioni relative alla efficacia e alla sicurezza degli interventi sanitari ha provato a sistematizzare le conoscenze in merito ad alcuni degli usi dell’omeopatia: la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, la sindrome del colon irritabile, la demenza senile, l’asma, gli effetti avversi delle terapie anticancro, l’induzione del travaglio, la prevenzione dell’influenza.
Risultato: spesso l’omeopatia si dimostra inefficace, in alcuni casi si vede qualche effetto ma il più delle volte non si è in grado di valutarla. Insomma, se l’omeopatia è in grado di produrre qualche risultato gli studi condotti a questo scopo non sono stati in grado di dimostrarlo. E a risultati analoghi hanno condotto numerose altre metanalisi (cioè studi che analizzano congiuntamente i risultati di ricerche affini condotte in precedenza).
Per gli omeopati è ovvio che sia così: per valutare l’omeopatia occorre capovolgere il metodo impiegato fin qui. Non verificare se il rimedio omeopatico ha proprietà curative nel soggetto malato, ma andare a vedere se le sostanze attive in esso presenti, a dosi elevate, sono in grado di produrre i sintomi tipici della malattia.
Così si finisce in un circolo vizioso dove ciascuno resta barricato sulle proprie posizioni.
Tuttavia, negli ultimi anni, tra chi boccia l’omeopatia tout court e chi invece la difende a spada tratta si sta facendo largo una terza opzione. Quella di chi sostiene che l’omeopatia ha sì una qualche efficacia, ma che non è dovuta a ciò che i rimedi contengono. Bensì a un fenomeno che chi studia i farmaci (quelli tradizionali) conosce bene: l’erfetto placebo, cioè «il risultato di meccanismi cerebrali di natura cognitiva, sia consci che inconsci, attraverso cui il contesto che accompagna qualsiasi intervento terapeutico produce effetti che possono essere anche molto specifici», spiega Gaetano Di Chiara.
«Finora è l’ipotesi più plausibile. L’effetto placebo è ben conosciuto dalla scienza. Esistono dei meccanismi su base psicobiologica che sono in grado di attenuare gli aspetti psicologici negativi della malattia. Tutte le volte che ci ammaliamo, infatti, la malattia, oltre a un aspetto fisico ne ha uno psichico. L’aspettativa nel potenziale curativo di un intervento terapeutico è in grado di lenire questo corollario della malattia. L’effetto placebo produce effetti reali: un miglioramento del tono dell’umore o una riduzione della percezione del dolore per esempio».
Questo meccanismo potrebbe verificarsi con l’omeopatia. Perché però l’effetto placebo abbia luogo è necessario che il trattamento sia investito di forti aspettative terapeutiche. «In questo gli omeopati sono bravissimi», dice il farmacologo. «Fanno un esame molto scrupoloso, sono molto attenti a quel che dice il paziente, stabiliscono una relazione molto profonda. In questo modo, la fiducia che il paziente ripone nell’omeopata viene trasferita nel rimedio omeopatico. Ma questi effetti dipendono dall’aspettativa e dai meccanismi tipici dell’effetto placebo, non dalla reale efficacia del rimedio», aggiunge.
C’è tuttavia un problema. «Una delle caratteristiche dell’effetto placebo, infatti, è che non ha un effetto riproducibile per lungo tempo. Se con i farmaci tradizionali si ripete è solo perché i principi attivi reali, con la loro efficacia, rinforzano le aspettative riposte di volta in volta dal paziente. Non è un caso, allora, che l’omeopatia abbia dimostrato una qualche efficacia solo per condizioni transitorie», conclude Di Chiara. Condizioni che viene il sospetto molte volte potrebbero guarire spontaneamente.
Se le teorie che sostengono l’omeopatia restano avvolte nel fumo, se le spiegazioni della sua efficacia restano soltanto ipotesi, concreto e tangibile è però il suo impatto nella vita concreta.
Si stima che facciano ricorso almeno una volta all’anno all’omeopatia circa 9 milioni e mezzo di italiani (il 15% della popolazione) e che quasi un bambino su due assuma rimedi omeopatici. Ad attrarre è soprattutto la convinzione che sia una tecnica naturale e senza effetti collaterali. Così l’industria dell’omeopatia prospera. Nel 2011 in Italia sono state vendute più di 28 milioni di confezioni che sono costate complessivamente ai cittadini oltre 300 milioni di euro. Di questi, fino a 60 milioni potrebbero essere stati in teoria a carico dello Stato: i rimedi omeopatici sono infatti detraibili dalle tasse in misura del 19% esattamente come i farmaci convenzionali.
Se ai cittadini l’omeopatia piace, anche i medici non disdegnano. L’omeopata, che fino a qualche anno fa era reietto dalla sua comunità professionale, oggi va fiero di seguire la via indicata da Hahnemann. Quanti siano a praticare la professione non è noto. Alcune stime parlano di 5 mila, altre di 20 mila. A volte in via esclusiva, a volta come corollario della loro specialità medica convenzionale.
In realtà, il numero di medici che prescrive ai propri pazienti medicinali omeopatici potrebbe essere molto più elevato. Ancor più dopo che nel 2002 anche la Federazione degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri ha sdoganato definitivamente l’omeopatia. Con un documento intitolato “Linee guida su medicine e pratiche non convenzionali” ha riconosciuto 9 discipline di medicina non convenzionale considerandole “atti medici” e pertanto di competenza esclusiva dei camici bianchi.
Così, un passo per volta l’omeopatia ha fatto il suo ingresso anche nella sanità pubblica. Non ancora dalla porta principale, quella del servizio sanitario nazionale, ma dalle venti porte più accessibili dei servizi sanitari regionali.
In Valle d’Aosta nel 2002 l’omeopatia, insieme all’agopuntura, entra nei Lea, i livelli essenziali di assistenza. L’ambito di applicazione è quello «materno-infantile (gestanti e bambini fino al primo anno di vita)» e l’erogazione avviene, a pagamento, all’interno di «specifici progetti sperimentali». La Lombardia collabora dal 2003 con l’Organizzazione mondiale della sanità con l’obiettivo di valutare efficacia e sicurezza delle pratiche e dei prodotti di medicina tradizionale e medicina complementare e di elaborare linee guida per il consumatore sull’uso appropriato della medicina complementare. Nel 2004 nasce in Emilia Romagna l’Osservatorio per le medicine non convenzionali con l’obiettivo di valutare, attraverso Programmi sperimentali di studi, l’efficacia delle medicine non convenzionali e le possibilità di una loro possibile integrazione nel Servizio sanitario regionale. La Regione Campania ha previsto l’impegno di fondi per progetti sperimentali e di formazione in medicine complementari. La Regione Umbria ha avviato lo sviluppo di un programma di integrazione delle medicine complementari nelle attività di assistenza primaria delle Aziende sanitarie. E altrettanto sta avvenendo in altre Regioni. Il faro di questo movimento è però la regione Toscana, dove di medicine complementari (e tra esse l’omeopatia) si comincia già a parlare nel Piano sanitario regionale 1999-2001 che promuoveva progetti sperimentali nelle Aziende sanitarie. Nel 2007 una legge regionale, poi, ha riconosciuto «il principio della libertà di scelta terapeutica del paziente e la libertà di cura del medico» e oggi sono più di 100 gli ambulatori pubblici che le erogano. Per accedervi, basta telefonare al Cup e pagare un ticket che si aggira sui 25 euro.
Quanto costi alle casse pubbliche tanta disponibilità verso una disciplina che fatica a dare prove della propria efficacia non è noto. Però c’è chi si chiede se al posto degli innumerevoli tagli anche ai gangli vitali dell’assistenza sanitaria che si sono susseguiti negli ultimi anni non fosse stato più giusto cominciare proprio da qui.