Marco Bucciantini, l’Unità 19/4/2014, 19 aprile 2014
LA DOMENICA DELLO SPAREGGIO – [CINQUANT’ANNI FA BOLOGNA-INTER L’UNICA «FINALE» DEL CAMPIONATO]
Bisogna ripensare a quei volti e con quelle immagini marcare la distanza e misurare guadagni e perdite, come ognuno vuole o sa: gli sconfitti di quel giorno sono più facili da ricordare, tutti, dal primo all’ultimo, più famosi. L’inizio è come una filastrocca, non fa rima ma porge un’assonanza: Sarti, Burgnich, Facchetti - Tagnin, Guarnieri Picchi. E poi: Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Vinsero tutto, persero quella partita. L’unica volta che si spareggiò per assegnare lo scudetto, il 7 giugno di cinquant’anni fa. Bisogna ricordare i volti degli altri, i trionfatori, meno famosi, a parte qualcuno: per vincere il campionato il Bologna dovette battere la squadra più forte del mondo. Negri, il portiere: non toccò palla. Furlanis terzino marcatore (su Mazzola), Pavinato che da sinistra strinse al centro, vicino a Tumburus, e scalò Capra, che indossava la maglia di Pascutti, la numero 11, ma finì nel gruppo dietro la metà campo. Janich era il libero. Fogli il mediano, e poté spingere, visto il fortino alle spalle. Bulgarelli e Haller gli interni, Perani l’ala tornante (a destra), Nielsen il centravano. Fulvio Bernardini l’allenatore, detto Fuffo e anche Dottore (era laureato in Scienze economiche).
Ricordare la faccia di Romano Fogli, per esempio, che tirò la punizione dell’l-0, di destro, basso, deciso, Facchetti ci mise la punta del piede a peggiorare le cose (poi raddoppiò Nielsen). Un volto lungo e scavato dalla magrezza, i capelli divisi e tirati da sinistra a destra (è così anche oggi, a 76 anni). La brillantina Linetti per tenerli in ordine. La fronte appena preoccupata, da tenui solchi, come le tracce di un vecchio disco dal quale un grammofono sbrogli una musica che non sentiremo più. È una bellissima foto che scolorisce ai bordi: nemmeno quella partita avremo più, le regole vietano la possibilità di spareggiare preferendo (nel caso, mai più avvenuto in Serie A, di un arrivo a pari punti) considerare discriminanti le reti segnati negli scontri precedenti: si è scelto di assemblare due partite distante nei mesi piuttosto che confrontare due forze nel campo, sulla partita secca.
Lo spettro di quel calcio canta tra le proprie ceneri: sussurra un tempo più combattuto e sorprendente, non solo quel giorno, ma per molti anni. E grida per farsi sentire e non solo rimpiangere, o ricordare negli anniversari. Anche allora c’erano i padroni, gli stessi cognomi di poi: Agnelli, Moratti. I club ricchi vincevano spesso, non sempre. C’era posto anche per le altre squadre, le altre città che potevano arrivare allo scudetto con la programmazione – Bernardini impostò un lavoro triennale sul Bologna – o con felici intuizioni di mercato, o quando transitavano proprietari più facoltosi e generosi.
Prima i dati, poi qualche tentativo di capirli. Dopo i disordinati tornei del secondo dopoguerra, dal 1952 a oggi la Serie A si è proposta in tre versioni: a 16, 18, 20 squadre. Nei campionati a 16 o 18 squadre c’è stato più equilibrio e maggiore distribuzione degli scudetti. L’aumento delle squadre va a vantaggio di poche vincitrici: nel periodo considerato i 10 tornei a 20 squadre (gli ultimi dieci campionati, dal 2004 a oggi) hanno salutato tre scudettate: Inter, Juventus e Milan. E loro sole. Nei due periodi a 18 squadre (fra il 1952-1967 e fra a 1988-2004) lo scudetto bazzica quelle due città e poi gira un po’ per l’Italia: vincono 5 squadre diverse nei 15 tornei fra il 1952-67 (il Bologna, appunto, e prima la Fiorentina, e le solite tre) e diventano 7 nei 16 campionati fra il 1988 e il 2004: quelle tre, più le due romane, il Napoli, la Sampdoria. L’equilibrio si sublima nei 21 campionati a 16 squadre, fra il 1967 e il 1988. Come ogni decisione anche quella di contrarre la Serie A avvenne per rimediare a un senso di colpa: il gol di Pak Doo Ik che ci eliminò dai mondiali inglesi chiedeva un cambiamento. La riduzione delle partite (in anni felici e dispendiosi per le italiane impegnate in Europa, con le quattro coppe dei Campioni del decennio, e la Fiorentina e la Roma che si aggiudicano Coppa della Coppe e Coppa delle Fiere) sembrava necessaria per destinare più tempo e più muscoli alla Nazionale. Lo snellimento della Serie A s’accompagnò alla chiusura delle frontiere fino al 1980.
Ventuno campionati con 30 partite, allora, e 10 squadre che vanno a dama: sì, quelle tre, come sempre, perché sono più forti per possibilità di spesa, per il fascino che fa colpo sui giocatori, su tutti come un brevetto immateriale che fa classifica, in questo sport. Juventus, Inter e Milan, d’accordo. E poi la Fiorentina, il Cagliari, la Lazio, il Torino, la Roma, il Verona, il Napoli. Si vinceva a “media inglese”, due punti in casa, uno fuori: il pareggio valeva di più, è vero, ma dai polpastrelli sfugge un commento: bellissimo.
L’equilibro merita maggiore stima di quella riservata dai governanti del caldo, che preferiscono altri calcoli. L’equilibrio incontra una naturale sovrabbondanza di sogni (e per questo si trascina appresso un crescente potenziale di incubi): ma sono i sentimenti che affollano gli stadi, difatti penosamente vuoti. Sgrossato dal suo aspetto zen, e considerato nel suo proporre concorrenza, l’equilibrio è cardine fondamentale dello sviluppo delle società, che invece deperiscono quando le forze e le aspettative si divaricano. In economia, dove pure può essere sinonimo di incertezza, nell’ultimo quarantennio è stato piazzato alla base di tutte le teorie di crescita e progresso. Lo studio dell’equilibrio ha aperto la via per capire quali processi economici non siano puramente competitivi, ma tendenti all’innovazione, al benessere diffuso, alla creazione di finanza sana.
Questo rilancio in territorio economico non è bizzarro. Il caldo italiano non può difendersi guardando all’estero, dove i tornei allineano partecipanti variabili: sono 20 squadre in Inghilterra, in Spagna e in Francia, sono 18 in Germania. La Bundesliga, e in generale tutto il sistema caldo tedesco, possono vantare la maggiore salubrità economica. Non è un caso. Sotto la Bundesliga ci sono la Zweite (18 squadre, la nostra Serie B ne ha invece 22) e la 3.Liga (20 squadre, la nostra Lega Pro, che però ne somma 33 in due gironi): il professionismo tedesco riguarda 56 società, quello italiano si allarga a 75, un’enormità economicamente insostenibile. Anche per questo negli ultimi 30 anni sono più di 50 le società che hanno portato i libri in tribunale: fallimento, e quindi azzeramento di una storia, con il danno culturale per una città, per una comunità perché il calcio è tessuto connettivo, è tenuta sociale. Il calcio è importante e andrebbe curato bene. Il Prato che vivacchia in Lega pro è prossimo al fallimento: dovesse accadere, completerebbe l’inventario delle squadre toscane dei capoluoghi costrette a ripartire da niente: è accaduto negli ultimi anni a Fiorentina, Pisa, Livorno, Pistoiese, Grosseto, Arezzo, Lucchese, Massese. E non stiamo chiacchierando di una terra appassita. Altrove è anche peggio, nelle zone depresse non è facile ricominciare, un patrimonio si perde per sempre.
La dieta aiuterebbe un sistema che è già oltre il collasso: è moribondo e sopravvive spesso di trucchi a babbo morto. E nutrirebbe la memoria come può farlo una gioia condivisa, dunque collettiva. Rievocare quel campionario di squadre diverse arrivate allo scudetto è come ascoltare un battito, sentir palpitare qualcosa. Abbiamo foto e abbiamo cuore. Una parata di Garella, non solo Maradona. E poi Bagnoli e i suoi, le frasi che non capiva nessuno e lo sguardo che diceva tutto. Il Torino di Radice, la Fiorentina yé-yé, giovanotti sfacciati e talentuosi, le sigarette di Pesaola, l’impermeabile di Scopigno. L’umanità di Maestrelli, l’italiano a bassa voce di Liedholm, che si compiaceva di coltivare imperfetto: «Ragazzo joca bene». L’allegria e la superba tecnica dei ragazzi di Boskov. È il nostro calcio, ma i colori, sui lati, sbiadiscono.
È spareggio, allora. Il primo e unico. Gianni Brera annotò: «Pomeriggio di sole assai caldo, la relativa frescura di un lieve ponentino. Terreno ottimamente inerbato». Un genio. Due fatti opposti gravano sulla partita: dieci giorni prima l’Inter ha vinto al Prater di Vienna la Coppa dei Campioni, battendo il Real Madrid, e svuotando il serbatoio. Il 3 giugno a Milano Renato Dall’Ara, da trent’ anni presidente del Bologna («un personaggio fra Arpagone e Bertoldo», sempre il Brera), viene stroncato da un infarto poco prima di incontrare il collega Angelo Moratti, pare per concordare l’entità del premio da elargire per lo scudetto. Il Bologna è già in ritiro a Fregene dove Bernardini comunica ai giocatori che la Federcalcio consentirebbe il rinvio della partita. «Mi risposero che volevano giocare subito, per dedicare il successo alla memoria del presidente». In campo, poca estetica. L’Inter di Helenio Herrera comanda stanca, pencola in avanti con stile via via calante, i rifinitori marcano visita per logorio. Il Bologna governa difendendosi: le cose vanno secondo l’idea di Bernardini. I gol arrivano tardi, ma inevitabili: una punizione di Fogli deviata da Facchetti, un gol di Nielsen lanciato in contrattacco dallo stesso Fogli. Altre occasioni saranno dissipate dai bolognesi, senza rimpianto. L’Inter vincerà ancora, tutto, più volte. Il Bologna niente. Certe facce non le vedremo più.
Marco Bucciantini
mbucciantini@unita.it