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 2014  aprile 22 Martedì calendario

SVEZIA 1958 – LA STELLA PELÉ RIALZA IL BRASILE


Sembrò cronaca. Fu storia. La novità del 1958 non fu il Brasile: era atteso nel pantheon mondiale dal tradimento del 1950. E neppure l’eliminazione di Italia, Spagna ed Uruguay dalle fasi conclusive della Coppa o la potente crescita d’attenzione di un evento destinato ad essere seguito, meglio, inseguito, con colossali interessi collaterali, dalle televisioni dell’intero mondo conosciuto. La novità fu tutta concentrata sul nome di un ragazzo nato diciotto anni prima tra i sessantamila di Três Corações, Minas Gerais, costa brasiliana rivolta all’Atlantico, scoperto da un bulimico allenatore d’origini partenopee, Italo Vicente Feola, battezzato di nascita Edson Arantes do Nascimento, approdato quindicenne nel Santos, esploso e consacrato alla storia planetaria del calcio con il nome di Pelé. Una nota d’arte tradotta su un terreno di gioco, un messaggio contagioso di vitalità e di fantasia, mai chiassoso od obliquo o preda d’intemperanze, una reliquia destinata ad essere trasmessa al futuro dello sport, come un rinato Jesse Owens.
In una compagine di fenomeni retta da un gran modulo, quattro difensori, due centrocampisti, quattro attaccanti, con un altro astro emergente, Manuel Garrincha, Feola gettò in campo il diciottenne nei quarti di finale, nella partita ad esclusione diretta contro il Galles. Finì 1-0, e fu Pelé a deciderlo. Confermato contro la Francia, il ragazzo moltiplicò tre volte la sua sete di gol, lasciando malridotti i transalpini (5-2). Dalla squadra brasiliana era stato in partenza eliminato il Mazzola locale, tale il nome in onore del Valentino del Grande Torino, José Altafini, compromesso dal contratto sottoscritto con il Milan. Nello stesso orario di Brasile-Francia, a Göteborg, la Germania federale cedeva vistosamente ai padroni di casa, forti di tre giocatori da tempo fattisi italiani, Kurt Hamrin, Lennart Skoglund e Nils Liedholm, rispettivamente in quota Fiorentina, Inter e Milan, aggiunti a Gunnar Gren, da due anni rimpatriato dopo aver incrociato in successione i colori di Milan, Fiorentina, Genoa.
La finale seguì un canovaccio ampiamente previsto, unica discriminante, in prospettiva ottimistica, il favore di casa. Un’illusione breve. Una realizzazione in apertura di Liedholm dopo aver messo fuori causa Bellini ed Orlando, pareggio dopo sei minuti di Vavá, raddoppio dello stesso giocatore alla mezz’ora, poi, nel secondo tempo, un tiro strepitoso di Pelé rimasto letteralmente stampato ed immacolato sulla traversa a visione futura, una sua rete, imitato qualche minuto dopo da Zagalo, il gol della dignità dì Simonsson, la perla definitiva di Edson Arantes do Nascimento e la prima firma dei sudamericani sulla superficie di una coppa che due anni avanti aveva perso, ottantatreenne, il suo ideatore Jules Rimet. Allenata da Alfredo Foni, con una trimurti Biancone-Ferrari-Mochetti a tutti gli effetti inesistente, l’Italia del ’58 visse una delle esperienze più deprimenti della sua storia. Batté a Roma, in aprile, l’Irlanda del Nord in uno dei gruppi eliminatori. Subì tre reti dal Portogallo, a Lisbona, nel maggio successivo. Salì a Belfast per il ritorno con l’Irlanda, ma il mancato arrivo dell’arbitro, Szabo Zsolt, ungherese, dissoltosi nelle nebbie del trasferimento, il rifiuto dei dirigenti italiani di sostituirlo con uno inglese, la rozza irritazione del pubblico pagante costretto a una declassazione del programma, trasformarono la partita del 4 dicembre ’57, terminata 2 -2 con gol di Ghiggia e di Montuori, da ufficiale in amichevole.
Sulla carta. In realtà, fu un mezzo massacro, in campo e fuori, con i fischi all’inno italiano ingoiati come antipasto. Senza eccezioni, i testimoni diretti riferirono di violenza teppistica scatenata dai giocatori, alimentata da un pubblico facinoroso al rientro degli azzurri negli spogliatoi.
Il rifiuto dell’arbitro fu un errore: è raro che un inglese, amabilmente ricambiato, avvantaggi un irlandese! Superato il Portogallo a San Siro (3-0, reti di Gratton, due, e di Pivatelli), con quattro naturalizzati all’attacco, Ghiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa, un’Italia inquieta raccolse i fantasmi della precedente trasferta e risalì il 15 gennaio a Belfast. Diresse Zsolt, Ghiggia fu espulso al 68’, finì 1-2, Da Costa realizzatore del classico gol della bandiera.
La figura della nazionale, definita «come la più fiacca rappresentativa che lo sport italiano possa esprimere», le taglienti dichiarazioni pronunciate in agosto da Giulio Onesti, presidente del Coni, sui «ricchi scemi del calcio, soliti farsi ridere dietro da mezzo mondo», ebbero seguito: le porte della Federazione si aprirono all’arrivo di un commissario straordinario nella persona di Bruno Zauli. In più, l’Italia del tempo aveva anche altre cose cui pensare. Moriva Papa Pio XII, saliva al soglio Giovanni XXIII. E in settembre (absit iniuria...), 560 case chiuse sarebbero state aperte da Lina Merlin.