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 2014  aprile 18 Venerdì calendario

SVIZZERA 1954 – GERMANIA REGINA TRA I SOSPETTI


Era il 24 gennaio 1954, domenica, 14.30: il calcio fa irruzione nelle case italiane con la prima partita in diretta televisiva. Si giocò a San Siro, con la neve, tra Italia ed Egitto, gara di ritorno del nono gruppo eliminatorio della quinta Coppa del mondo. La metà campo azzurra era viola, fiorentino lo schieramento di qualità formato da Costagliola, Magnini, Cervato, Chiappella, Rosetta, Segato. In panchina, Lajos Czeizler, ungherese di nascita con lunga frequentazione di ambienti italiani, Milan, Padova, Sampdoria, Fiorentina, affiancato da Angelo Schiavio, l’uomo del ’34. Finì 5-l, con gli egiziani in frigorifero.
Fissata tra il 16 giugno e il 4 luglio, la quinta edizione della Coppa venne trasferita in Svizzera. Con l’assetto difensivo maldestramente rivoluzionato per interferenze dirigenziali, l’Italia fece subito i bagagli. Furono i padroni di casa a castigarla in un gruppo completato da Inghilterra e Belgio con un regolamento assurdo: due teste di serie a gruppo, una squadra opposta solo a due tra le avversarie. Vittima di un arbitraggio balordo di Mario Viana – brasiliano, sospettato d’eccessiva familiarità con gli avversari, poi radiato dalla categoria non prima d’essere stato preso a calci nel sedere nelle scale verso lo spogliatoio di Losanna da Benito Lorenzi, interista, il meno diplomatico degli azzurri, forte di gambe e di lingua – la nostra nazionale perse la partita iniziale con la Svizzera (2 -1), si divertì e divertì contro il Belgio (4-1), ringraziò l’Inghilterra per l’affermazione sugli elvetici (2-0) e il 23 giugno si recò a Basilea per l’incontro di spareggio. Fu una catabasi, 4-1, tra gli insulti delle migliaia di minatori italiani accorsi.
Il mondiale del 1954 ebbe una peculiarità: la prolificità. 132 gol in 24 partite, una media di raro riscontro, oltre 5 a partita. Nei primi quattro gruppi, 16 reti subite dalla Corea del Sud, esordiente, in due partite (9 dall’Ungheria, 7 dalla Turchia, a sua volta travolta 7-2 dalla Germania), Brasile-Messico 5-0, Uruguay-Scozia 7-0, Austria-Cecoslovacchia 5-0. Nei quarti di finale, l’Austria prevalse sulla Svizzera (7-5), l’Uruguay per 4-2 sull’Inghilterra del trentanovenne Stanley Matthews, primo insignito due anni dopo del Pallone d’oro, l’Ungheria sul Brasile (4-2), la Germania sulla Iugoslavia (2-0). Nelle due semifinali, l’Uruguay di Schiaffino costrinse l’Ungheria, priva di Ferenc Puskás, infortunato, ai tempi supplementari (4-2), mentre non ci fu storia tra Germania ed Austria (6-1).
In quella Coppa, la vittoria aveva una predestinata, l’Ungheria, autentica macchina da guerra trasferita su un campo da gioco, tra le massime espresse nella storia del calcio mondiale. Se avesse vinto, sarebbero stati rispettati rango, nobiltà di gioco, tradizione. Costituita dal blocco della, Honvéd, squadra dell’esercito gestita in chiave tecnica direttamente dal ministro dello sport Gusztav Sebes, reduce dal successo olimpico di Helsinki, la nazionale magiara si presentò nei turni finali con precedenti impressionanti. Il 25 novembre del 1953, a Wembley, con il punteggio tennistico di 6-3, prima nella storia, aveva violato l’imbattibilità casalinga dell’Inghilterra. Sei mesi dopo, il 23 maggio, nella rivincita disputata al Nepstadion di Budapest, la sconfitta inglese si tramutò in un’inondazione, 1-7. Non andò meglio alla Germania ovest, sepolta da un inattaccabile 8-3 nel primo turno di qualificazione. Tirando le somme, tra il 1950 e la finale della Coppa del Mondo, l’Ungheria era stata capace di mettere uno sull’altro 31 risultati utili consecutivi, con 28 vittorie e 3 pareggi. Professionisti di stato, in pratica, i calciatori ungheresi, come il piccolo pugile, l’imbattuto, l’eterno ragazzo di Budapest a nome László Papp che portò appese al collo le medaglie dei tre successi olimpici, Londra 1948, Helsinki 1952, Melbourne1956.
Il 4 luglio, al Wankdorf di Berna, giornata piovosa, Puskás malridotto, la previsione sembrò concretizzarsi, pronta a trasformarsi in un’apoteosi: due reti dei magiari in appena otto minuti, Puskás, il capitano, al 6’, Czibor all’8’. Neanche dieci minuti, e la Germania rimise in equilibrio la partita con Max Morlock, un destro in scivolata, e con Helmuth Rahn su una ribattuta dall’angolo. Il legno della porta tedesca ci mise del suo, con un palo di Nándor Hidegkuti e una traversa di Sándor Kocsis. Gradualmente, mentre l’Ungheria cedeva, l’aggrEssività della Germania cresceva. All’84’, ancora Rahn, su contropiede, mise fine ad un incontro che dette stura a dubbi mai cancellati a distanza di oltre mezzo secolo. E mai lo saranno, è probabile, salvo che un rigurgito di resipiscenza non suggerisca a qualche gola profonda di ripulirsi la coscienza in un confessionale laico. Una cosa è certa: una strana malattia rese di lì a poco gialli epidermidi e visi di gran parte dei giocatori tedeschi. Il sospetto di doping trovò terreno fertile. Oggi come allora.