Maria Latella, Il Messaggero 20/4/2014, 20 aprile 2014
«TIFFANY, IL LUSSO MAI SNOB»
Lavorare da Tiffany non è propriamente un sacrificio. «Quando entri da Tiffany sai che non può succederti niente di male», era il mantra di Audrey Hepburn versione Colazione da Tiffany.
Però se, come Raffaella Banchero, sei l’amministratore delegato di Tiffany per l’Italia e la Spagna, si presume che una certa pressione psicologica (la chiamano ansia da risultato) gravi ogni giorno sui tuoi risvegli. Tanto più se hai un marito e una casa a Milano, un ufficio a Madrid e un figlio diciottenne per il quale organizzi feste di compleanno a sorpresa. La tentazione sarebbe di archiviare Raffaella Banchero alla voce: superdonna robotica, ma un dato anagrafico lo impedisce: è nata e cresciuta a Genova. Che c’entra? C’entra.
LE ALTRE LIGURI
Delle donne liguri la ceo Banchero ha la solidità, l’autoironia e quel senso della misura che le consente di fare senza strafare. A conferma di questo assunto, ecco qualche altra ligure apprezzata all’estero: Ornella Barra, genovese, a capo del colosso farmaceutico Alliance Boots, Cristina Scocchia, sanremese, ceo di L’Oreal Italia, Alessandra Perrazzelli, genovese, prima italiana country head di Barclays.
Sempre più spesso gli italiani sono più apprezzati all’estero. È successo anche a lei, Raffaella Banchero.
«L’italiano ha tenacia, creatività e una buona dose di coraggio e follia che altri non hanno. Gli altri marciano sempre in accordo con le regole ma non le interpretano. Non è solo questione di competenza: tutti abbiamo studiato le stesse cose. Ma, rispettando le regole, forse l’italiano ci mette un pizzico di visione in più. Io sono in Tiffany da quindici anni. Ho cominciato come direttore amministrativo, poi chief financial officer e oggi posso dedicarmi a quella che è la mia vera passione: sviluppare un mercato».
Che cosa bisogna avere per lavorare da Tiffany?
«Diciamo che serve una visione complessiva: tenere d’occhio la gestione economica perché siamo una società quotata in borsa ma ricordarsi che i nostri negozi devono mantenere le porte aperte. La forza di Tiffany è sempre stata la sua accessibilità: nessuno si sente intimidito o escluso quando entra da Tiffany. Il nostro è un lusso raggiungibile e non solo nei prezzi. Non ci interessa come sei vestita, come sei pettinata, che borsa hai quando vieni a trovarci. È così che siamo diventati il secondo player del settore in Europa».
Dipende dal fatto che Tiffany è americana e la mentalità americana è meno snob di quella europea?
«C’è anche questo. Chi lavora per Tiffany sa che questo non lo autorizza a darsi arie di superiorità rispetto al cliente».
Lei è a capo dell’azienda in Italia e in Spagna. Due Paesi in difficoltà. Come stanno reagendo alla crisi?
«Quando siamo arrivati in Spagna, cinque anni fa, sembrava ci fosse il coprifuoco. Oggi il Paese si sta riprendendo, seppure lentamente. Gli spagnoli sono astuti, non stanno pubblicizzando la ripresa. Ripartono dalle basi. Non ti danno solo l’apparenza. Comunque, a Madrid come a Roma, al regalo di Natale o al pensiero per il compleanno non si rinuncia mai. Le differenze tra le due città riguardano piuttosto i consumatori».
I madrileni comprano più gioielli dei romani?
«A Madrid collocherei i consumatori in tre diverse fasce. La prima è quella della donne madrilene: non esibiscono mai la loro disponibilità economica. Sono molto low profile. Poi c’è la comunità internazionale, dipendenti di aziende straniere e studenti che arrivano da fuori: Madrid è più attraente per gli universitari, costa meno e la qualità delle facoltà scientifiche e di architettura è considerata buona. Terza fascia di consumatori: la comunità cinese che a Madrid è molto numerosa. Loro comprano diamanti, una pietra che non è, come per noi, l’anello di fidanzamento, ma quello che si regala alla mamma o alla sorella».
E i turisti?
«Ci sono affinità tra il turista che entra nei nostri negozi di Barcellona e Milano: entrambi approfittano del viaggio per fare uno shopping serio. A Madrid e a Roma invece il turista è distratto dalla bellezza che ha intorno e allora vince l’attimo romantico: "Scegli quello che vuoi, cara"».
Di recente a Roma avete aperto anche in via Cola di Rienzo: strategia rivolta a consumatori diversi da quelli che passano tra via Condotti e piazza di Spagna?
«In via Cola di Rienzo entrano i romani e non solo i turisti. Poi, ci piace l’idea di riqualificare un po’ la zona. Coin ha presentato un progetto e noi lo sosteniamo. Le bancarelle vanno benissimo, ma perché devono essere brutte? Ombrelloni? Va bene, ma che siano almeno dello stesso colore...».
Quale Italia vi raccontano i vostri sette negozi?
«L’80 per cento dei nostri clienti è italiano e devo dire che non abbiamo risentito dalla crisi. Il nostro è un articolo legato al sentimento ma anche alla certezza di poter accedere a gioielli che ti danno la possibilità di decidere quanto vuoi spendere».
Che cosa dicevamo? In tempi in cui l’amore deve tener conto anche delle palanche, chi meglio di una genovese per Tiffany?