Franco Bechis, Libero 19/4/2014, 19 aprile 2014
CHE IPOCRISIA LEGARE LE RETRIBUZIONI A QUELLA DI RE GIORGIO
Dopo molti annunci, ecco il tetto agli stipendi pubblici: 240 mila euro lordi. Una cifra scelta ha più volte ricordato Matteo Renzi perchè nessuno nel comparto pubblico deve guadagnare più del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che prende appunto uno stipendio lordo al momento di 239.181 euro lordi annui. E già questa è una grande ipocrisia. Perchè lo status del presidente della Repubblica è diverso da tutti gli altri, e nulla ha a che vedere con un normale compenso di lavoro. In pratica Napolitano non spende nemmeno un centesimo di tasca sua: non paga una bolletta della luce, del telefono, del gas, non spende per mangiare, non spende per bere, non spende per spostarsi, qualsiasi mezzo scelga per farlo. Nel lungo periodo di permanenza di Napolitano al Quirinale anche alcuni spostamenti di natura privata (come visite familiari) hanno coinciso con visite istituzionali, e i relativi costi sono stati interamente a carico della presidenza della Repubblica. Se il suo trattamento fosse identico a quello degli altri dipendenti della presidenza della Repubblica, perfino la convenzione bancaria di cui potrebbe usufruire il capo dello Stato sarebbe fortemente a sconto rispetto alle condizioni praticate a qualsiasi altro tipo di lavoratore, manager o dirigente pubblico che sia. La vera ipocrisia è dunque quella di paragonare il trattamento economico di un manager o dirigente pubblico a uno stipendio come quello del capo dello Stato che
se nel lordo comprendesse anche il valore di tutti i benefit ricevuti, sarebbe assai più vicino ai 500mila euro che a quei 240mila oggi presi a riferimento. Anche Renzi deve essersi accorto della baggianata diffusa in questi giorni, visto che ieri ha provato a correggerla in extremis ribattezzando la sua operazione sobrietà sugli stipendi pubblici con l’impronta di Adriano Olivetti: «Nessun capo azienda può avere uno stipendio superiore oltre 10 volte quello dell’ultimo assunto». Bella ipocrisia anche questa, perchè col fischio che lo stipendio minimo di ingresso nella pubblica amministrazione oggi è 24mila euro lordi. La stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici guadagna assai meno.
Sarà popolare di sicuro avere ridotto quegli stipendi dei grand commis e dei manager pubblici. E perfino anche la scelta di Renzi di estendere il tetto perfino al settore privato, avendo legato quei 240mila euro massimi anche alla scelta dei nuovi presidenti del consiglio di amministrazione di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste e Terna. Popolare di sicuro, ma assai sbagliata nella sua filosofia. Nel pubblico come nel privato il tema cruciale non è tanto quello degli stipendi, che per altro si sono ridotti negli anni naturalmente per la perdita del potere di acquisto e grazie alle scelte di politi-
ca fiscale dei vari governi. È l’idea stessa della «livella» ad essere errata, e oltretutto non nuovissima: era la filosofia di base nella realizzazione del comunismo in Unione Sovietica e in Cina. Ieri Renzi ha cercato di minimizzare la misura, circoscrivendola ai soli altissimi dirigenti. Nel testo in entrata delle ore 17 del giorno precedente del decreto invece quel taglio agli stipendi scendeva giù per la catena, raggiungendo anche livelli assai più bassi. Quest’idea tanto più con quella estensione al settore privato da un lato dà all’intero Paese l’indicazione di una strada virtuosa che passa attraverso l’impoverimento generale, e quindi sarà fortemente depressiva anche del ciclo economico. E non tocca il solo tema virtuoso in tema di retribuzioni: il fatto che siano legate al merito, e non garantite a prescindere. Non era il tetto agli stipendi la questione cruciale nemmeno nella pubblica amministrazione, ma il fatto che in ogni retribuzione vi fosse una componente premiale legata ai risultati individuali (e non collettivi, che alla fine è premiale solo per i sindacati che la trattano). Perchè togliere anche nel pubblico il desiderio di fare carriera, lavorare di più e meglio e quindi guadagnare di più? È quella la virtù che manca, e che così non potrà mai esserci.