Sergio Romano, Corriere della Sera 22/4/2014, 22 aprile 2014
VITA E CONTRADDIZIONI DI FEJTÖ MARXISTA LIBERALE, EBREO CRISTIANO
Ho saputo che lei ha conosciuto François Fejtö. Ha vissuto una vita lunga giungendo fino a 99 anni. Alla caduta dell’Impero austroungarico, la famiglia si smembrò con migrazioni verso Jugoslavia, Italia, Cecoslovacchia e Romania. Mi ha meravigliato apprendere che in gioventù fosse di tendenze di sinistra perché nella maturità aveva abbandonato l’ideologia marxista e anzi era molto critico nei confronti di essa. Potrebbe descrivercelo?
Giampaolo Grulli
Caro Grulli,
Fejtö è già stato ricordato più volte su questa pagina, soprattutto per la sua attività di saggista e storico dell’Europa comunista negli anni della Guerra fredda. Lei si meraviglia che questo brillante critico dell’universo sovietico fosse stato attratto, nei suoi anni giovanili, dal marxismo. Ma questa è soltanto una delle sue apparenti contraddizioni, una delle tante tappe che hanno marcato la sua esistenza. Nacque ebreo in una famiglia che proveniva dalla Germania e che cambiò il cognome (da Fischel a Fejtö) in segnò di lealtà al Paese che l’aveva accolta. Ma fu attratto dal cristianesimo e si convertì al cattolicesimo. La conversione si intiepidì, credo, abbastanza rapidamente. Forse il suo progressivo distacco dalla Chiesa coincise con l’interesse per i libri di Marx e per la breve esperienza della effimera repubblica sovietica creata da Bela Kun dopo la fine della Grande guerra. Ma nelle sue memorie accenna anche a una certa ripugnanza per le prediche antisemite di un giovane prete che sarebbe diventato famoso nella storia dell’Ungheria con il nome di Mindszenty.
Lasciò l’Ungheria nella seconda metà degli anni Trenta, inseguito da un mandato di cattura per i sei mesi di carcere che gli erano stati inflitti per le sue attività «rivoluzionarie», visse in Francia durante gli anni della guerra, sfuggì alle retate contro gli ebrei del regime di Pétain. Alla fine del conflitto riprese contatto con il suo Paese, ritornò alle sue vecchie simpatie socialdemocratiche e divenne capo dell’ufficio stampa dell’Ambasciata d’Ungheria a Parigi. Ma non appena il governo comunista processò uno dei suoi leader, Laszlo Rajk, Fejtö si dimise e fu da allora uno dei più autorevoli critici dell’Europa sovietizzata.
Negli anni giovanili, quali che fossero le sue lealtà politiche del momento, non era certo asburgico. Ma col passare degli anni, mentre l’Europa centro-orientale diventava nazista e, successivamente, comunista, cominciò a chiedersi se la disintegrazione dell’Impero austroungarico non fosse stata uno dei più clamorosi errori commessi dai vincitori della Grande guerra. Il suo Requiem per un impero defunto , apparso in Francia nel 1993 e in Italia subito dopo, è un atto d’accusa contro Georges Clemenceau, il presidente francese della vittoria, e le logge massoniche europee a cui Fejtö attribuiva la responsabilità di un complotto antiasburgico.
Restava, nella sua vita, ancora un nodo che cercò di sciogliere nell’ultimo decennio. Era laico, ma anche, al tempo stesso, ebreo e cristiano. Per conciliare questi due aspetti egualmente indispensabili della sua identità spirituale, si indirizzò a due autorità religiose: il cardinale arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger, un ebreo convertito al cattolicesimo nel 1940, e il Grande Rabbino della capitale francese. A entrambi chiese se al servizio funebre per la sua morte, celebrato in una chiesa cattolica, potesse venire letto il Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche. Lustiger disse che era possibile, ma il Rabbino disse di no. Confesso di non sapere, caro Grulli, che cosa sia accaduto dopo la sua morte, a Parigi, il 2 giugno 2008.