Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 22/4/2014, 22 aprile 2014
LA STRAGE DEI MINATORI ITALIANI CHE ROCKEFELLER CANCELLÒ CON L’ARTE
Le vittime
Il 20 aprile del 1914 a Ludlow, in Colorado, un numero mai chiarito di persone, fra cui donne e bambini, viene ucciso nella repressione di uno sciopero dei minatori locali, molti dei quali italiani. Nessuno dei responsabili del massacro verrà punito
Il magnate
Le guardie private autrici della strage insieme alla milizia civile erano state inviate dalla Colorado Fuel and Iron company guidata da John D. Rockefeller jr (sopra , con il padre John sr). Per riabilitare la sua immagine compromessa dall’accaduto, Rockefeller cominciò un’intensa attività benefica
Difficile bollarli come sovversivi comunisti: Giuseppe Petrucci aveva quattro anni, la sorellina Lucia due, il piccolo Francesco solo quattro mesi. E il loro omicidio, che non poteva esser spacciato per il prezzo necessario a domare i minatori in sciopero, colpì l’America come una scudisciata. E obbligò il potentissimo John D. Rockefeller a tentare di rifarsi una faccia puntando tutto sulla neonata Fondazione Rockfeller. Che avrebbe dato vita al MoMa, il museo di arte moderna. Frutto, in qualche modo, del dolore dell’emigrazione italiana.
Successe a Ludlow, esattamente cento anni fa. Quel borgo oggi abbandonato alle pendici delle Montagne Rocciose, quasi ai confini del Colorado verso il New Mexico, era abitato allora da migliaia di immigrati polacchi, greci, messicani e italiani che lavoravano nelle miniere di carbone. In gran parte quelle della Colorado Fuel and Iron, la più grande impresa del settore, che apparteneva a quello che era l’uomo più ricco del mondo, John D. Rockefeller senior, che ne aveva affidato la gestione al figlio «Jr».
Abitava a New York, John D. Rockefeller jr. A tremila chilometri. E avrebbe ammesso di non sapere nulla delle condizioni di vita dei minatori. Guadagnavano un salario da fame pagato in buoni-acquisto negli spacci che appartenevano alla stessa Company, vivevano in baracche affittate ancora dalla Colorado Fuel and Iron, lavoravano in condizioni così pericolose che nel solo 1913 nelle «mines » del Colorado, con un tasso di mortalità doppio rispetto al resto dell’America, erano morti in 104. E quelli che sopravvivevano erano malati di silicosi e avevano gli occhi pesti fotografati dal grande Lewis Hine.
Scesero in sciopero nel settembre 1913. La compagnia li buttò subito fuori di casa e loro si trasferirono in un accampamento di fortuna. E lì, come testimoniano le foto, passarono l’inverno. Un inverno tremendo. Tra montagne di neve. Mentre cresceva la tensione tra loro in sciopero e i crumiri rastrellati dall’azienda che aveva assoldato per la loro difesa mercenari dell’agenzia «Baldwin-Felts», incaricati anche di provocare i ribelli sparando ogni tanto sulle tende per attirarli in uno scontro che avrebbero fatalmente perduto.
Non bastasse, gli uomini della Guardia civile inviati dal governatore Elias Ammons, finirono per schierarsi dalla parte della Company. Sempre più in difficoltà, i minatori guidati da un greco, Louis Tikas, cominciarono ad armarsi di vecchi schioppi e revolver e scavare trincee sotto le tende per potersi difendere meglio.
Finché il 20 aprile, stanco delle trattative e del braccio di ferro col sindacato United mine workers, l’ufficiale Karl Linderfelt diede alle milizie e ai mercenari l’ordine di spazzare via i minatori e il loro campo di tende. La sparatoria, tra chi era armato con vecchie carabine e chi aveva i blindati con le Gatling e le mitragliatrici ultimo modello, durò l’intera giornata. Il macchinista del treno sul quale era caricato il carbone tentò di mettersi in mezzo tra i minatori e i miliziani per contenere lo scontro. Le donne, i vecchi e i bambini si rifugiarono terrorizzati nelle trincee. Ma ogni resistenza fu inutile. Il campo fu spazzato via. Le tende incendiate. E il fuoco assassinò anche quelli che erano chiusi sotto, nelle buche.
La cronaca del New York Times del 22 aprile, ripresa in un furente saggio dello scrittore Hans Ruesch, diceva: «Quarantacinque morti, tra cui 32 donne e bambini, una ventina di dispersi e altrettanti feriti è il bilancio della battaglia di 14 ore tra truppe statali e scioperanti nella proprietà della “Colorado Fuel and Iron Company”, una holding di Rockefeller. Il campo di Ludlow è una massa di macerie carbonizzate che nascondono una vicenda di orrori che non ha l’eguale nella storia della lotta industriale. Nelle trincee che si erano scavate per proteggersi dalle pallottole, donne e bambini sono morti come topi in trappola, uccisi dalle fiamme. Una trincea scoperta questo pomeriggio conteneva i corpi di dieci bambini e due donne».
Quante furono le vittime, e quante fossero dell’una e quante dell’altra parte, in realtà, non è mai stato del tutto accertato. C’è però una lapide dedicata ad alcuni dei morti. Piena di italiani. Giovanni Bartolotti che lasciò vedova la moglie Virginia, Carlo e Fedelina Costa con i figlioletti Onofrio e Lucia e poi il ventiduenne Francesco Rubino e poi i bambini dei Petrucci, che probabilmente erano partiti da qualche contrada laziale. Avevano quattro bimbi, i Petrucci. Il più grandicello, Bernardo, era morto di malattia, forse broncopolmonite. Gli altri tre furono uccisi dall’incendio. Resta una loro foto. Lucia è seduta su una seggiolina, Giuseppe a terra, Bernardo e l’ultimo nato, Francesco, su un mastello rovesciato.
I commenti dei giornali contro quell’insensata carneficina di persone che chiedevano solo un orario di otto ore, il divieto di far lavorare i bambini e una paga decente in dollari e non in buoni, furono durissimi. Sul posto si precipitò per il Metropolitan il grande John Reed che scrisse un reportage rabbioso dal titolo «La guerra del Colorado». La rivista The Masses mise in copertina un minatore che reggeva tra le braccia una bimba morta. Il New York World pubblicò una vignetta in cui al vecchio Rockefeller mostravano preoccupati un titolo: «Guerra civile di Rockefeller in Colorado. Uccisi donne e bambini!».
E insomma la famiglia, con tutti i suoi miliardi di dollari, si sentì di colpo così esposta al disprezzo della pubblica opinione che il vecchio John D. convocò in fretta e furia il numero uno dei public relation man dell’epoca, Ivy Lee: «Cosa dobbiamo fare?». Rispose: «Mostratevi generosi. Puntate sulla Fondazione. Fatene un’occasione di beneficenza, di cultura, di promozione dell’arte». E fu lì, dicono gli storici, che i Rockfeller imboccarono la strada che pochi anni dopo li avrebbe portati a dare vita al Museum of Modern Art. Il MoMa. Non erano riusciti forse, certi Papi impresentabili, a far dimenticare le loro nefandezze commissionando opere meravigliose?