Matteo Persivale, Corriere della Sera 22/4/2014, 22 aprile 2014
LA STORIA DI HURRICANE PUGILE VITTIMA DEL RAZZISMO LIBERATO GRAZIE A DYLAN HURRICANE (BOB DYLAN)
È riuscito a alzare al cielo la cintura di campione del mondo dei pesi medi solo quando era ormai vecchio e stanco e fiaccato da 19 anni di carcere, ma quel titolo ad honorem col quale il mondo della boxe cercò di rimediare alla tragedia della sua vita e della sua carriera spezzata non è stato la vittoria più importante di Rubin Carter detto Hurricane. La sua vittoria più importante l’ha ottenuta da vecchio, e malato terminale di tumore alla prostata, l’altro ieri: quando è morto a 76 anni nel suo letto. Invece che nella cella dove l’avevano mandato giurati bianchi e giudici bianchi e testimoni d’accusa bianchi, con tre ergastoli da scontare, la cella nella quale avrebbe dovuto morire, se possibile, per tre volte, come tre erano le vite falciate nella mattanza del Lafayette Bar and Grill, Paterson, New Jersey.
Hurricane, soprannominato così per l’uragano di colpi con cui cercava di rimediare alla statura non eccelsa e alla tecnica rudimentale era stato condannato due volte — nel 1967 e nel 1976 — per una sparatoria del 1966. Ma la polizia non aveva rilevato le impronte sulla scena del crimine, non aveva fatto test per controllare se Carter e il suo amico (presunto complice e coimputato, che il giorno di Pasqua l’ha assistito mentre moriva) avessero usato armi da fuoco. La polizia aveva impiegato cinque giorni per mettere a verbale che dei proiettili compatibili con quelli usati dagli assassini erano stati trovati nella macchina di Carter. E, preso atto che non c’erano testimoni oculari, ecco spuntare due ladruncoli per identificare Carter e l’amico e chiudere il caso.
Una condanna sgangherata che fece tanta impressione da diventare un caso: ma ci vollero 19 anni di carcere e una mobilitazione mondiale, una canzone immortale di Bob Dylan e un romanzo dell’autore de L’uomo dal braccio d’oro Nelson Algren, pubblicato postumo, The Devil’s Stocking per ottenere la liberazione di Hurricane (l’amico aveva ottenuto la libertà vigilata nell’81).
Dylan aveva cantato per lui anche nel suo carcere, Alì gli aveva dedicato una vittoria, ma a liberarlo fu un altro giurista bianco con la toga: «Condanna basata sul razzismo, non sulla logica, e sulla dissimulazione invece che sulla trasparenza», tuonò Haddon Lee Sarokin, indignato, liberandolo per sempre.
Nel 1999 la consacrazione: un film biografico con Denzel Washington a interpretare la sua vita. Denzel affascinato da quel signore un po’ male in arnese che beveva litri di caffé e avvolgeva il divo salutista in una nuvola di fumo di sigaretta raccontandogli la storia della sua infanzia, dei suoi combattimenti, del processo e del carcere. Washington ieri ha pianto «la lotta senza tregua» dell’amico «per assicurare giustizia ai condannati ingiustamente» attraverso il suo lavoro di volontario di questi anni, Mike Tyson ha salutato «un grande uomo, simbolo di ingiustizia razziale» e George Foreman l’ha chiamato «il mio eroe».
Un eroe dalla vita violenta cominciata in riformatorio appena quattordicenne, il servizio militare svolto con disonore ma nel quale aveva scoperto la boxe, ancora il carcere (per furti e aggressioni) e poi, finalmente, scontata la pena quei brevi e entusiasmanti cinque anni di carriera sul ring che l’avevano portato a sfiorare la lotta per il titolo.
Fino alla notte del 17 giugno 1966, alla fine del sogno di diventare campione, lo stesso sogno di Marlon Brando nel monologo di Fronte del porto («Avrei potuto essere rispettato, avrei potuto puntare al titolo. Avrei potuto essere qualcuno invece di essere il buono a nulla che sono adesso»). Fino all’attesa di giustizia per quasi vent’anni del teppistello dei bassifondi di Clifton, New Jersey, che aveva capito subito che avrebbe dovuto passare la vita a combattere contro quelli più grandi, e più cattivi, di lui.