Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 22 Martedì calendario

AUTHORITY DI BILANCIO, ULTIMA CHIAMATA SOTTO GLI OCCHI DELL’EUROPA


L’ultimo appello è per domani. L’ultimo, se vogliano almeno contenere le dimensioni dell’ennesima figuraccia europea. Sono mesi ormai, che il nostro Parlamento, sotto i riflettori di Bruxelles, è alle prese con una faccenda di cui non si mostra in grado di venire a capo: la nomina dei componenti di un’authority del tutto speciale. Si chiama ufficio parlamentare di bilancio. E’ quell’organismo indipendente previsto dai trattati europei sul fiscal compact al quale spetta il controllo del principio del pareggio dei conti pubblici sancito anche dalla costituzione. Ma che non riesce a vedere la luce. La ragione? Un meccanismo di nomina assolutamente folle, studiato per favorire manovre di corridoio e accordi fra i partiti ma che ha finito per determinare un’imbarazzante paralisi decisionale.
La nomina dei tre componenti spetta ai presidenti della Camera, Laura Boldrini, e del Senato, Piero Grasso. La loro scelta, però, va fatta in una rosa di dieci nomi indicati dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Dieci nomi votati separatamente da ciascuno dei due organismi parlamentari ma con la maggioranza qualificata dei due terzi. Una cosa praticamente impossibile, considerando la complessa geografia della rappresentanza nelle due Camere. Prima c’è stata una serie di fumate nere. Avvenute già oltre il tempo massimo, dato che l’ufficio doveva essere operativo entro il primo gennaio scorso. Poi, quando si è arrivati al dunque, è scattato il gioco dei veti incrociati.
Ecco allora che in prima battuta la commissione Bilancio di Montecitorio ha dato il via libera a tre soli nomi presi da un elenco di 66 ritenuti idonei: gli economisti Luigi Paganetto, Mario Cangiano e Alberto Zanardi. Mentre invece il Senato approvava una lista di nove nomi. Dove c’erano, oltre ai tre di cui sopra, Pietro Garibaldi, Angelo Fabio Marano, Chiara Goretti, Giuseppe Pisauro, l’ex ministro dell’Industria nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, Paolo Savona, e l’ex sottosegretario all’Economia nell’esecutivo Monti, Gianfranco Polillo. Con una clamorosa bocciatura inflitta, per un voto, alla seconda donna che avrebbe dovuto far parte della rosa dei dieci: Veronica De Romanis, incidentalmente consorte dell’ex componente della Bce Lorenzo Bini Smaghi.
Tutto da rifare, dunque. Il giorno dopo, allora, nuova votazione sui sette nomi che non avevano avuto il disco verde congiuntamente da Camera e Senato. E nuovo flop. Perché mentre a Montecitorio tutti i dieci nomi passavano l’esame, al Senato le bocciature erano addirittura due. Non più soltanto quella di Veronica De Romanis, ma pure quella di Polillo.
Così domani, mercoledì 23 aprile, è previsto un altro round di votazioni per definire quelle due caselle rimaste ancora vuote, e senza le quali i presidenti di Camera e Senato non possono fare la scelta che compete loro. L’incertezza è totale. E non è escluso che saltino fuori nomi ancora mai presi in considerazione negli accordi fra i partiti. Il gruppo dei 66 da cui pescare non è poi così povero: se non di donne. Infatti ce ne sono appena otto, il 12,1% del totale. Nell’elenco c’è per esempio Vieri Ceriani, allievo di Federico Caffè, alto dirigente della Banca d’Italia e sottosegretario alle Finanze nel governo Monti. Ma anche Paolo De Ioanna, già capo di gabinetto al Tesoro: prima di Ciampi e poi di Tommaso Padoa-Schioppa. Oppure i non più giovanissimi Guido Rey e Luigi Mazzillo. Mentre fra le poche esponenti femminili troviamo l’ex presidente dell’Isae Fiorella Kostoris.
L’essenziale è che domani il Parlamento metta la parola fine, nel migliore dei modi, a una storia andata avanti fin troppo. Mettendo a rischio ancora una volta la credibilità del nostro Paese proprio mentre chiediamo all’Europa di fidarsi: e concederci di rinviare la scadenza del pareggio di bilancio.