Serena Danna, Corriere della Sera - La Lettura 20/4/2014, 20 aprile 2014
PULITZER NEL PAESE DEI LILLIPUZIANI
La decisione della Columbia University di conferire il premio Pulitzer più importante, quello per il servizio pubblico, alle squadre redazionali del «Guardian» e del «Washington Post» che hanno pubblicato le informazioni di Edward Snowden, porta con sé una promessa per il futuro dell’informazione.
A essere premiati non sono stati i singoli che hanno mediato il rapporto con l’ex tecnico della Cia e consulente della Nsa — l’avvocato-blogger Glenn Greenwald, la documentarista Laura Poitras, l’esperto di difesa e intelligence del «Guardian» Ewen MacAskill e Barton Gellman del «Washington Post» — ma i quotidiani: il giornalismo «tradizionale» che ha scelto di aprirsi a fonti e mediatori eccentrici rispetto ai canoni giornalistici del secolo scorso. Sono molti i dubbi che circondano ancora oggi i protagonisti della vicenda Snowden, a partire dal whistleblower (termine che definisce chi denuncia attività illecite di un’azienda o istituzione di cui fa parte) che ha scelto come terra d’esilio politico la Russia di Vladimir Putin, diventando una pedina ricattabile del presidente. Ultimo triste episodio riguarda la partecipazione video di Snowden a una trasmissione televisiva — ospite Vladimir Putin in persona — in cui il giovane informatico ha fornito il pretesto al presidente per dichiarare che in Russia non esistono intercettazioni di massa e che l’attività dei servizi segreti è regolata dalla legge.
Lo scetticismo di molti ha accompagnato in questi mesi anche la figura di Glenn Greenwald, più vicina a quella di un attivista politico guidato dall’ideologia che a un reporter alla ricerca di notizie. La stessa Laura Poitras — che, a differenza dei primi due, ha sempre tenuto un profilo molto basso — non spicca per obiettività e spirito critico: a partire dal 2001 il suo obiettivo di documentarista è stato quello di dimostrare come l’attentato alle Torri Gemelle abbia trasformato gli Stati Uniti in una nazione poco democratica.
Se si guarda alle individualità del «caso Snowden», i dubbi sono legittimi e si arriva perfino a capire l’indignazione di alcuni esponenti politici americani, come il deputato repubblicano Peter King che su Twitter ha definito «una disgrazia» il Pulitzer ai «fiancheggiatori di Snowden». Invece, a essere premiato con il più importante riconoscimento giornalistico americano è stato il coraggio di due quotidiani dalla storia antica come «The Guardian» e «The Washington Post», che — invece di chiudersi davanti al rischio e al nuovo — hanno investito persone, denaro e onore in una difficile inchiesta.
Il risultato, come ha scritto sull’«Atlantic» Conor Friedersdorf, è che senza i loro articoli oggi saremmo tutti più ignoranti. «Quando i padri fondatori hanno scritto il Primo Emendamento — si legge — intendevano preservare un giornalismo di storie come quelle nate dalle rivelazioni di Snowden: articoli che forniscano ai cittadini le verità sui governi, verità che gli stessi governi e le loro élite vorrebbero nascondere». Il comportamento della Nsa, l’agenzia americana di spionaggio, è stato giudicato illegale, le politiche di sorveglianza degli Stati Uniti stanno cambiando e proposte di riforma del settore sono già sul tavolo del presidente Obama: è questo il risultato dello straordinario lavoro di inchiesta dei quotidiani.
Nelle intenzioni del Comitato legato alla memoria di Joseph Pulitzer — assicurano dalla Columbia University — il riconoscimento dovrebbe dunque da un lato spingere il «giornalismo tradizionale» a recuperare lo spirito investigativo e a puntare sul rischio, dall’altro indurre gli investitori a scommettere sull’informazione con la i maiuscola. Anche perché, lontano dalle utopie del «servizio pubblico», nell’ecosistema dei media sta avanzando quello che il giornalista finanziario Felix Salmon ha definito la «bolla Wonk» con riferimento al Wonkblog del «Washington Post» gestito da Ezra Klein.
Klein, 29 anni, considerato un opinionista molto influente a Washington, ha lasciato il quotidiano fondato nel 1877 da Stilson Hutchins per dirigere il neonato sito di «giornalismo esplicativo» «The Vox», finanziato dal potente gruppo Vox Media. Il progetto, lanciato agli inizi di aprile, punta principalmente su approfondimento e analisi dei dati.
Significa che invece di trovare notizie, «The Vox» prova a spiegare e approfondire quelle esistenti. Oltre al consolidato metodo «BuzzFeed» delle «11 cose da sapere su qualsiasi cosa», Klein ha introdotto il sistema del mazzo di carte: ogni giorno un argomento di attualità o di dibattito politico-economico viene spiegato attraverso slide di forte impatto grafico.
Il sito di Klein arriva dopo il fiorire di una serie di progetti con struttura simile: «The Dish» di Andrew Sullivan, blog ospitato da varie testate, ultima il «Daily Beast», e dallo scorso anno testata giornalistica indipendente; «Five Thirthy Eight» dello statistico Nate Silver, prima blog del «New York Times» e oggi sito autonomo finanziato dall’emittente tv Espn. Mentre il milionario fondatore di eBay Pierre Omidyar ha già investito 250 milioni di dollari nella società giornalistica First Look Media, il cui primo prodotto è «The Intercept», sito (poco) curato da Glenn Greenwald, la storica rivista americana «The New Republic», oggi finanziata e diretta dal cofondatore di Facebook Chris Hughes, sta per lanciare un sito verticale diretto dal giornalista politico Jesse Singal.
Tutte le testate sono accomunate da approfondimenti, spiegazioni, commenti e da quello che Michael Wolff definisce personal brand journalism , il giornalismo che punta sulla notorietà del singolo piuttosto che sul prestigio collettivo della testata (Nate Silver ha raccontato a «la Lettura» che qualche settimana dopo il suo arrivo al «New York Times» un collega gli disse: «Ricordati sempre che il tuo cognome qui è Times»).
Altro che fine dei blog. L’esplosione del «giornalismo esplicativo» di nicchia nel panorama americano segna al contrario la «bloggizzazione» dell’informazione nell’epoca della grande transizione verso il digitale.
Ecco perché — come ha spiegato Salmon — la «bolla Wonk» ha qualche motivo di successo:
1) il web richiede un giornalismo che sia «nativo digitale» — aggiornabile, multimediale, ricco di link — e questi siti lo sono;
2) «la bolla può essere per i suoi protagonisti come la Silicon Valley per la tecnologia o Boston per le università», un sistema capace di creare una nuova economia dell’informazione;
3) può espandere i limiti del possibile, come quando Klein dice che il suo obiettivo non è competere con il «New York Times» ma con Wikipedia: fatti, non notizie;
4) solo un’informazione molto riconoscibile e approfondita è in grado di fidelizzare il suo pubblico;
5) al di là dei costi iniziali, le spese per gestire le redazioni sono contenute.
Eppure è proprio qui che cominciano i problemi. Ken Doctor, il fondatore di «Newsonomics», ha stimato sul «Financial Times» che siti di news con una media di 15 giornalisti impiegati costano circa 8 milioni di dollari all’anno, cifra che va al 60-70% in spese editoriali. Basti pensare che le stesse spese per un quotidiano nazionale americano arrivano circa al 12%.
A costi (relativamente) bassi corrispondono però bassissimi ricavi: gli unici conosciuti al momento sono quelli della creatura di Andrew Sullivan, che ha sperimentato un sistema di paywall (contenuti a pagamento): nel 2013 «The Dish» ha guadagnato 800 milioni di dollari.
Se, come dice il fondatore di Netscape Marc Andreessen, «stiamo entrando in una nuova era d’oro del giornalismo» riferendosi ai siti di nicchia, viene da chiedersi se il concetto di g olden age del XXI secolo non preveda profitto. «Essere piccoli e diversi rispetto all’offerta mediatica esistente — ha scritto John Gapper sul «Financial Times» — è un buon modo per attirare attenzione, fidelizzare il pubblico e attirare lettori seri. Ma diventare un business seriamente redditizio è qualcos’altro». E senza denaro dimentichiamoci i pool investigativi che hanno permesso a Greenwald di portare a casa il Pulitzer e le notizie da spiegare e approfondire.