Paola Pollo, Corriere della Sera 19/4/2014, 19 aprile 2014
«CONFESSO: SONO CATTIVO E SEGUIRE LA BORSA M’ANNOIA»
«Confesso: sono cattivo E seguire la Borsa m’annoia» «Mi hanno anche bocciato. Ero proprio un asino. A 19 anni ero così felice di lavorare che non mi sono mai più fermato: non è normale. È stata un reazione agli anni di sofferenza e svogliatezza della scuola. Avevo tanta energia dentro che è stata la mia carica infinita». E ancora, a 53 anni, Remo Ruffini da Como va, veloce. La promessa è di parlare poco di lavoro e tanto di lui. Solo una domanda, che è sulla bocca di tutti: dopo l’avvio al fulmicotone (la quotazione in dicembre schizzò) ora le azioni Moncler (come quasi tutte quelle del lusso) sono sotto il prezzo di collocamento del 20 per cento, come vive questa (nuova) situazione? «Non guardo l’andamento. Non lo capirei. E poi influenza senza motivo. Non ci sono risposte chiare. Ma se lavoriamo bene, con la stessa visone e strategia, come abbiamo sempre fatto non ci saranno problemi. Certo non si parla d’altro nei corridoi… Io dico ma chissenefrega, l’azienda e il prodotto sono sani». Parentesi aperta e chiusa.
Ma non le piaceva proprio stare in classe?
«Mi annoiavo».
Non dica così: domani chi li manda i ragazzi a scuola?
«La detestavo allora, però la preparazione mi è mancata».
Come cultura o come strumento?
«È un linguaggio che impari e che ti serve. Così guardo i miei figli (Pietro e Romeo ndr ) con quel pizzico di complesso d’inferiorità che è orgoglio: uno vive in America e l’altro a Londra. Hanno scelto le loro strade da soli. Il mio è stato un guinzaglio lungo e invisibile. Certo quando se ne sono andati per studiare, la casa non è stata più la stessa: troppo silenzio. Adoravo rientrare e trovarli in salotto con gli amici. Mi sedevo con loro, a chiacchierare. C’è un’energia nei giovani meravigliosa».
Da che pulpito: in dieci anni lei ha portato un’azienda da 30 a 580 milioni di fatturato. E poi sempre in giro per il mondo e le aperture e le vendite e la Borsa.
«Ho solo riscritto una storia meglio, ascoltando la gente, tutti i giorni. Non c’è Borsa, non ci sono azionisti, non c’è private equity che tengano. Una strategia moderna deve aggiornarsi in continuazione. Pensiamo solo che tre mesi fa l’Ucraina era un’altra cosa e la Crimea non era un Paese. E la Cina? Sembrava inarrestabile e ora guarda!».
Ruffini, l’uomo che ascoltava i clienti.
«E poi c’è il team che devi saper scegliere e i momenti che devi cogliere. Lungimiranza».
Come quando nel ’74 se ne andò da suo padre, negli States, un privilegio, allora.
«Andai per lavorare con lui ma non mi piaceva. Era tutto troppo diverso dalla mia Como».
Ma allora Ruffini «mai-contento»?
«Sono tornato e mi sono messo a fare qualcosa di mio e da lì tutto il disimpegno di anni si è trasformato in impegno e cattiveria sul lavoro. E a 21 anni avevo l’azienda e facevo tutto da solo».
C-A-T-T-I-V-E-R-I-A: sembra essere la chiave del successo di molte persone, ma non è esattamente una parola bellissima.
«Leggasi grinta, determinazione. Insomma cattiveria nella sua accezione positiva. È stata la mia energia. Però non è l’ossessione lavoro: entrare in ufficio alle 8 e uscire alle 10 di sera non serve. Una sana cattiveria non reggerebbe tante ore!».
Non sbotta mai?
«Mi arrabbio, qualche volta, sì. Ma non è una condizione giornaliera».
Personaggi che le piacciono?
«Ogni giorno ne incontro qualcuno di eccezionale. Qualche settima fa ero da Giovanni Minoli, non lo conoscevo: incredibile, nessuno come lui con quella cattiveria/grinta/carisma. Ed ero a colazione con Matteo Arpe: di manager così ne nascono pochi. E allora perché gente così brava non è usata come si dovrebbe? Questa è l’Italia che non funziona e che premia solo chi dice di sì. E un Arpe potrebbe gestire Banca Italia e un Minoli la Rai».
Modelli di riferimento?
«Steve Jobs, per il lavoro. Non come uomo. La chiarezza e il prodotto, il suo mantra. Così Patrizio Bertelli (Prada ndr ), un caratteraccio è vero, ma ha creato da solo una delle aziende più potenti al mondo, senza sinergie».
Le piace piacere?
«Cerco di apparire il meno possibile, non ho quell’ego. All’inizio forse un po’ sì. Poi però no. Non mi viene istintivo sorridere, ecco. È solo lavoro».
Sua moglie, Francesca, che si occupa di Weber Coast ahaus, è da più di trent’anni al suo fianco
«Di Como anche lei. Ci siamo messi insieme nell’81 e nell’88 ci siamo sposati. Anni importanti. Ora facciamo comunque una nostra vita perché il valore della carriera, al di fuori dal lavoro, non mi dà emozione».
La sua città, un punto fermo.
«Prima anche di più. Quando c’erano i ragazzi, intendo. Stavo da Dio. Era il mio rifugio. La mia edicola, il mio caffè, il mio lago. Era vivere un po’ come in un resort. Ora qualche volta mi fermo anche a Milano».
Tentato di andarsene?
«Mio padre, che se n’è sempre andato in giro, ha un’altra famiglia negli Usa (Ruffini a Washington ha un fratellastro, Patrick, un “genietto della politica” ndr ) e ora vive in India e non è mai contento. A 50 anni disse che avrebbe smesso di lavorare e così ha fatto. E dopo mostre e il villaggio per bambini non sa che fare...».
E lei smetterebbe?
«Morirei. Sono un cacciatore di emozioni, non potrei».
E del suo successo cosa dice?
«L’unica frase in 15 anni, dopo aver letto un articolo sul New York Times, è stata: “Porco cane non ti vanno mica male le cose”. Non comprerei un quadro perché lo fanno tutti, o una Ferrari: detesto. Non lo trovo neppure bello come gesto. Mi piacciono le foto e impazzisco per le piante: portatemi in una serra e mi farete felice. Ma non colleziono orologi, anzi di più: non li porto proprio. Guardo l’ora su quelli degli altri».