Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 19/4/2014, 19 aprile 2014
FINITO IL TEMPO DEI «PORTATORI» ORA SONO GUIDE D’ALTA QUOTA DA OLTRE 20 MILA DOLLARI L’ANNO
Il ragazzino cammina respirando profondo, chino sotto il basto di bambù carico all’inverosimile. Dice di non avere più di undici anni. Ma fa già un lavoro da adulto. Il carico — legna, sacchi di riso, teli di plastica e vestiti — oscilla ad ogni passo sulle spalle strette da adolescente. Lui si bilancia aggiustando la fascia di tela spessa sulla fronte legata attorno al basto. Lo pesiamo: sfiora i 30 chili, quasi quanto il suo corpo. Il padre accanto trasporta oltre 80 chili di assi e cemento, marceranno oltre una settimana per raggiungere il loro villaggio verso la cima dello Cho Oyu, al confine con la Cina, nella vallata parallela a quella del parco nazionale dell’Everest. Si ciberanno di chapati, riso speziato, spinaci, faranno spesso il fuoco con gli escrementi secchi degli yak, dormiranno in catapecchie annerite dal fumo. Gente forte, selezionata dalle asprezze della quota. Sono talmente forgiati dalla mancanza dell’ossigeno che i loro polmoni consumano quasi la metà dei nostri. Il prezzo però è altissimo: a quarant’anni ne dimostrano venti di più, la vita media è sui sessanta.
Ritmi di un’esistenza antica, sopravvissuti tra coloro privi di contatti con l’universo delle spedizioni straniere. Chiunque cammini lungo i percorsi dei trekking meno conosciuti del Nepal settentrionale ha tutt’oggi il modo di incontrare l’universo più autentico, e tutto sommato immutato nei secoli, degli sherpa (letteralmente «popolo dell’oriente»). Qui vivono in 40.000 con il reddito medio di 400 dollari all’anno per famiglia prevalente tra la grande maggioranza dei 26 milioni di nepalesi. Le loro terre di origine sono tra gli altopiani del Tibet, restano legati alla tradizione buddista e sono raccolti soprattutto attorno ai contrafforti di quello che loro chiamano «Chomolungma», «madre degli dei». Ma che per il resto del mondo è invece l’Everest, con i suoi 8.848 metri d’altezza calcolati dai geografi inglesi nell’Ottocento.
Questi sono gli sherpa delle origini. I poveri delle montagne per eccellenza. Al loro fianco però ci sono quelli impiegati nel «grande gioco» dell’alpinismo himalayano. Le loro leggendarie doti di resistenza fisica nel trasportare pesi inumani lungo i tracciati più impervi alle alte quote cominciano a essere conosciute all’estero grazie alle spedizioni occidentali verso il «tetto del mondo» quasi un secolo e mezzo fa. Li descrive con affettuosa ammirazione nei suoi diari George Mallory, l’alpinista inglese ossessionato dall’ambizione di raggiungere per primo la cima e morto con il compagno Andrew Irvine nel 1924 a un tiro di schioppo dalla realizzazione del suo sogno. Ormai gli sherpa sono diventati parte integrante delle spedizioni straniere. Tocca a loro portare le attrezzature, bombole dell’ossigeno, tende, cibo, disporre le corde fisse, addirittura piazzare ponti e scalette di alluminio sui crepacci e seracchi più complessi. Con il passare degli anni diventano a loro volta esperti alpinisti. Si specializzano, differenziando i salari. Ai nostri giorni una guida d’alta quota guadagna oltre 20.000 dollari a stagione, un bravo portatore circa la metà. Celebre tra i tanti lo Sherpa Apa, che ha toccato per ben 21 volte la cima dell’Everest. Non stupisce siano ormai considerati dei privilegiati tra i nepalesi. Per loro le spedizioni estere sono un business senza pari, che ha fatto tornare in patria tanti immigrati e generato livelli di reddito impensabili solo mezzo secolo fa.
Sin dall’inizio però non sono mancati gli attriti tra portatori e alpinisti stranieri. Gli scioperi per migliorare i salari e soprattutto regolare ritmi di progressione e peso dei carichi (non oltre i 25 chili ai campi alti) sono all’ordine del giorno. Quasi non c’è spedizione che non abbia incontrato difficoltà. Con il crescere delle loro professionalità alpinistiche, bilanciato dallo sviluppo delle spedizioni commerciali dove i turisti stranieri anche meno esperti si dimostrano sempre più pronti a pagare qualsiasi cifra (anche 100.000 dollari a testa) pur di essere «accuditi» in tutto e per tutto sino alla vetta, gli sherpa chiedono rispetto personale e persino il controllo sugli accessi alla «loro» montagna. Lo sa bene Simone Moro, che l’anno scorso ha rischiato la vita durante un diverbio con un centinaio di sherpa sui ghiacci. Ne era consapevole anche Hedmund Hillary, che al tempo della sua vittoria all’Everest nel 1953, strinse un patto di fedeltà con il suo sherpa Tanzing Norgay: non avrebbero mai rivelato chi dei due pose per primo piede sulla cima.