Danilo Taino, Corriere della Sera 19/4/2014, 19 aprile 2014
A BANGALORE, NEL PARADISO DELL’HI-TECH LA NUOVA INDIA SCUOTE LA VECCHIA POLITICA
«L’India non ce la farà a vincere le sfide che ha di fronte se non riuscirà a cucire il suo tessuto sociale», dice Nandan Nilekani, uno dei candidati al parlamento nazionale più interessanti del lungo mese elettorale in corso nel Paese. È pomeriggio, l’ex imprenditore, fondatore di Infosys — la società di software diventata il sinonimo dell’hi-tech indiano — sta per iniziare un comizio al mercato di Bommanahalli, un quartiere popolare di Bangalore, città culla dell’India ad alta tecnologia. Lo accompagna M.H. Ambareesh, attore del cinema (soprannome Rebel Star) e locale ministro della Casa; intorno, sventolano le bandiere con sopra la mano, simbolo del partito del Congresso, per il quale Nilekani si candida; si alzano gli slogan; piovono fiori. In superficie è la solita India alle elezioni, entusiasmo e caos. Appena sotto pelle, c’è però un Paese che ribolle, alla vigilia di decisioni che potrebbero rilanciarne il successo economico degli anni scorsi o condannarlo al rallentamento dei mesi recenti, accelerare l’uscita dalla povertà di milioni oppure tenerli bloccati nella miseria. «Dobbiamo rimetterci sulla strada giusta», dice Nilekani.
Il fatto nuovo è che, tra cascate di petali di rosa e invettive politiche, a queste elezioni l’India si avvia non a scegliere a quale famiglia affidare il potere ma a decidere se stare con la classe media emergente o con l’antico paternalismo che cementa il sistema delle caste. Sapere quali partiti stiano da una parte e quali dall’altra è qualcosa che nemmeno la divinità della saggezza Ganesh saprebbe dire: ma Nilekani è l’uomo perfetto da osservare per capire qualcosa del conflitto interno alla democrazia più popolosa del pianeta. Nel 2005, quando tutto sembrava potesse andare solo bene, lui e la sua Infosys furono gli ispiratori di un libro di successo del giornalista americano Thomas Friedman, «Il mondo è piatto». Sembrava che la globalizzazione stesse facendo bene a tutti, poveri e ricchi. Dieci anni dopo, Nilekani deve ammettere che non è così, che «il mondo non è piatto», che ogni Paese è diverso dagli altri e che l’India deve affrontare problemi enormi e tutti suoi. Per questo, nella campagna elettorale parla delle piccole cose che per gli elettori sono grandi: l’acqua, l’educazione, il miglioramento delle infrastrutture di Bangalore, l’impegno contro la violenza sulle donne, la lotta alla corruzione. E della necessità che i cittadini si organizzino e controllino. «Senza un lavoro capillare e il coinvolgimento della gente dimezziamo le nostre possibilità di crescita», sostiene. Unire gli indiani per fare avanzare l’India.
La realtà è meno semplice. Tutti i partiti sanno quali sono i problemi, in alcuni casi i drammi, del Paese. Il dilemma su come procedere, però, è nato negli ultimi cinque anni: il partito del Congresso guidato da Sonia Gandhi, al governo, non ha fatto riforme, non ha aperto a sufficienza l’economia ai privati , ha preferito interventi pubblici per garantire quantità di riso alle famiglie, distribuire latte nelle scuole, dare coperture assicurative ai contadini. Misure giuste ma messe in contrapposizione a altre (non fatte) che avrebbero prodotto più crescita nell’economia, in particolare le liberalizzazioni dei servizi e dell’industria. Il risultato dell’approccio paternalista è stato il crollo del tasso di crescita a meno del 5% annuo, rispetto a uno potenziale doppio, e il dilagare di burocrazia e corruzione. Da qui l’enorme insoddisfazione degli indiani per gli ultimi anni di governo e quella che i giornali chiamano «Modi Wave», l’ondata di consensi che in buona parte dell’India sembra accompagnare nelle elezioni Narendra Modi, il candidato a primo ministro del maggiore partito di opposizione, il Bjp, uomo che apprezza il mondo del business e ne è molto ricambiato.
È che l’India è di fronte a un’alternativa classica. Per fare un nuovo salto nello sviluppo sa di dovere abbattere la povertà. Ma: meglio dare sostegni diretti a chi vive nel disagio o puntare sulla crescita indotta dall’iniziativa privata? Nilekani pensa che non ci sia contraddizione. In realtà, la contraddizione c’è stata finora, a causa delle scelte non fatte dal governo e dal partito del Congresso, ancora legato alle radici socialiste e sospettoso del mondo degli affari (anche se amico di molti imprenditori). È una polemica — interventi nel sociale contrapposti alle aperture ai privati — che va nel profondo, in un Paese poverissimo: ha anche diviso i due maggiori economisti indiani: Amartya Sen schierato con la prima impostazione (e con il Congresso) e Jagdish Bhagwati con la seconda (e con il Bjp).
Al fondo di tutto c’è che a queste elezioni, per la prima volta, la classe media è diventata la questione centrale. Nel 1985, il 90% degli indiani viveva con meno di un dollaro al giorno; nel 1996, la classe media — tra i 500 e i 1.500 dollari al mese — era ancora di solo 25 milioni; l’anno prossimo dovrebbe superare i 260 milioni e arrivare, secondo la società di consulenza McKinsey, vicino ai 600 nel 2025. Già oggi, l’India è il solo Paese, oltre agli Stati Uniti, ad avere superato la soglia dei cento milioni di utenti regolari di Facebook. Ma non sono solo il numero e la progressione a rendere l’emergere di questa realtà fondamentale per i partiti e la politica: è il fatto che anche buona parte delle masse che non sono middle class vogliono diventarlo. Si è formata una nuova egemonia: quella dei giovani istruiti, degli ingegneri, dei programmatori di software, dei ricercatori della farmaceutica, dei disegnatori sempre più insofferenti delle inefficienze dello Stato. È la nuova società civile che lotta contro la violenza sulle donne. È l’India di Nilekani l’imprenditore, in fondo. Non necessariamente però del suo partito. È una nuova India che confonde la vecchia politica. Finalmente.