g. c., la Repubblica 19/4/2014, 19 aprile 2014
SCHERZI E INSULTI QUANDO IL GIOCO È AFFARE DA FREUD
MONTECARLO
Esistono, tra quelli che raramente rispondono alle definizioni di giochi, e più spesso alle degenerazioni dello sport, prestazioni individuali e collettive. In entrambe possono affiorare gli istinti, ovviamente migliori e deteriori ma, nel caso di sport di gruppo, il comportamento anomalo è meno evidente, così come accadrebbe nel caso del membro del coro nella tragedia o nell’opera lirica. Tra gli sport individuali il tennis è forse quello che dura più a lungo, una partita media va sull’ora e mezzo, e non fatica a superare le cinque ore nel caso del best of five set. Cinque set spesso disputati sotto il sole estivo, a volte dopo una precedente partita non meno lunga, e il conseguente accumulo di tossine, notti di sonno disagevoli, spesso interrotto da angosciosi ricordi, incubi.
Mi rendo conto di aver iniziato, nella mia presunta generosità, ad occuparmi di una excusatio non petita, prima ancora di una accusatio manifesta: come quella, ad esempio, rivolta ieri a Fabio Fognini da chi avesse ascoltato i suoi insulti a bordo campo, rivolti a suo padre e ai precettori, per ragioni che certo non avevano a che vedere con la partita in corso, ma con rapporti umani capaci di conseguenze che starebbe allo psicoterapeuta, non certo al cronista, approfondire. Nella mia lunga vita dissipata ai bordi dei court, ricordo di aver assistito a vicende che si potrebbe definire estreme, o patologiche. La prima mi venne raccontata da papà, anche lui tennista.
Alla fine degli Anni Venti, gli italiani riuscirono ad accorpare una squadra di Coppa Davis rispettabile, formata dal barone triestino De Morpurgo, già membro dell’esercito austroungarico, e dall’italianissimo nobiluomo veronese De Stefani. De Morpurgo era capitano della nostra squadra di Davis, più vecchio di De Stefani di dieci anni e, alla prima inaccettabile sconfitta contro il suo delfino, invece di stringergli la mano, gli assestò sulle guance uno schiaffo, quasi a vendicarsi di un affronto, una mancanza di rispetto, insomma una trasgressione.
Non è facile assistere in campo a manifestazioni avverse all’avversario, ma una ne ricordo, da me citata in tre biografie che ho sentimentalmente dedicato alla grande Suzanne Lenglen. Sui campi della Costa Azzurra, il tennista franco-svizzero Aeschlimann (o era il Barone Artens?) era uso, nei giorni negativi, accendere ai cambi di campo, le corde e addirittura il legno delle racchette che egli riteneva colpevoli dei più facili tiri mancati. Per rimanere più vicini nel tempo, val la pena di citare Nastase, tennista romeno che per il suo carattere instabile vinse meno di quanto gli sarebbe stato possibile, e cioè soltanto – scusate – quattro Masters.
In uno di questi disputato a Stoccolma, Nastase, denominato Nasty, e cioè Sgradevole, era opposto al nero Arthur Ashe, gran gentiluomo e non meno grande tennista. Per provocare, come sempre faceva, un avversario in vantaggio, Nasty prese a rivolgersi ad alta voce all’avversario, provocandolo, suggerendogli di mettersi un cappellino bianco perché il suo color nero non gli permetteva di vedere la palla. Simile suggerimento si fece sempre più frequente, sinché Ashe, troppo educato per una reazione manesca, afferrò le sue racchette e uscì dal campo. Un giudice arbitro di buon senso, Klosterkemper, decise prontamente di squalificare Nastase. Ma non era finita.
La mattina seguente sentii bussare alla porta della mia camera. Era Nastase, che reggeva un mazzo di rose. «Gianni – mi disse – non sono per te. Accompagnami per favore alla camera di Ashe, perché voglio scusarmi ». Ma il solo a mia memoria ad aver aggredito l’avversario in campo fu il mio amico Tacchini, fondatore delle famose magliette che, insultato più volte a Napoli dal sudamericano Alvarez, un vero provocatore, lo colpì con un pugno e lo stese, prima di essere squalificato. Accade a tutti, per ragioni note soltanto al Dottor Freud, di commettere errori. L’importante è scusarsene, come il nostro Fognini dopo le escandescenze del match contro Tsonga. Ma sarebbe ancor meglio capire che cosa ci ha spinti sin lì, in modo da non esserne di nuovo vittime.
g. c., la Repubblica 19/4/2014