Carlo Bonini, la Repubblica 19/4/2014, 19 aprile 2014
NELLA TESTA DEL CELERINO “LA BOMBA CARTA TI SCHIACCIA LO STERNO PENSI SOLO ALLA VENDETTA”
Marco ha 35 anni. Un diploma, un corso di laurea abbandonato troppo presto, una moglie che una sera di qualche mese fa ha cambiato la serratura della porta di casa. Marco è un “celerino” e sabato era in piazza a Roma, in via del Tritone. Dice: «Senti un po’, ti è mai esplosa una bomba carta a qualche metro di distanza? Lo sterno ti schiaccia i polmoni, la gola si chiude e cominci ad avere conati di vomito. Le orecchie ti fischiano in modo lancinante. Sudi freddo. E se resti in piedi e non cadi come un birillo la testa riesce a dirti solo due cose. Grazie a Dio sono vivo. E poi, quanto è vero Dio, ora ammazzo chi ha cercato di ammazzarmi. Sabato scorso ho anche smesso di contarle, le bombe carta che ci hanno tirato. E a un certo punto ho pensato che persino i razzi di segnalazione marittima che ci sparavano ad altezza d’uomo erano meglio di quella merda».
L’epica della violenza è una brutta bestia. Può declinare in retorica. E la piazza di epica della violenza ne ha una peculiare. Ma è anche vero che i 5mila uomini della Celere, nome dismesso solo negli organigrammi del ministero (“Reparti Mobili”), da quell’epica appaiono contagiati e impregnati per “necessità”. Adriano, 46 anni, che di mestiere i celerini li addestra: «Devi immaginare che chi assume ogni giorno dosi omeopatiche di rabbia sul marciapiede rischia, prima o poi, di somigliare ai violenti che fronteggia. Fino ad assumerne le regole, i riflessi condizionati. L’addestramento, e dunque il lavoro sulla tecnica e sulla testa, è fondamentale. Ma spesso non basta. Alla fine, sul marciapiede arriva un momento in cui sei solo. Tu e loro. C’è una frazione di secondo in cui sei l’unico responsabile dei movimenti del tuo corpo in un contesto in cui vola di tutto, il rumore è assordante e la tua adrenalina è quella di chi reagisce a un’aggressione fisica. In quel momento conta solo chi sei. Drammaticamente, se sbagli paga tutta la Polizia».
Anche per questo, è andato per sempre il tempo in cui questa “carne da cannone” arrivava dal sottoproletariato urbano e dal bracciantato agricolo, meritandosi la solidarietà controcorrente di Pierpaolo Pasolini nel giorno della battaglia di Valle Giulia (1 marzo 1968). Certo, la Celere è ancora affare di “terroni” (più della metà è ancora arruolata nel centro-sud), ma non è più il Calimero della Polizia di Stato. Il 70 per cento degli effettivi ha un diploma di scuola superiore. Il 10, una laurea. Alla Celere si chiede di andare, non ci si viene più spediti perché puniti o inabili ad altra incombenza che non contempli solo l’uso dei muscoli. I “burocrati del Ministero”, come nella Celere chiamano “quelli del Viminale”, hanno mandato a mente la lezione del G8 2001. Sull’ordine pubblico, si giocano le carriere di ministri, capi della polizia, prefetti e questori e con loro l’immagine dello Stato. Il “pulviscolo informativo” fatto di smartphone e videocamere ha fatto di una manifestazione, dello stadio, di uno sgombero, uno streaming dove nessun dettaglio sfugge e il dettaglio diventa il tutto. Una sineddoche che mette in fuori gioco gli ideologismi, i corporativismi e insieme però azzera ogni complessità. Ancora Adriano: «Lo ripetiamo fino alla nausea ai ragazzi. La piazza ha mille occhi. E uno di quegli occhi vi giudicherà senza appello».
Anche per questo, l’ordine pubblico è diventato priorità. «Nessuno ti ricorderà se hai sventato una rapina — dice un ex questore di Roma — Ma nessuno dimenticherà un agente che scalcia un manifestante inerme. E su questo verrai giudicato». I Reparti Mobili sono stati portati a 15 (Torino, Genova, Milano, Padova, Bologna, Firenze, Roma, Senigallia, Taranto, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Cagliari). E 7 anni fa, ormai, Antonio Manganelli, il Capo della Polizia che ebbe l’onore di chiedere scusa per i fatti di Genova, inaugurò la scuola di formazione di Nettuno. Luogo in cui affinare testa e tecnica di uomini che, tuttavia, continuano a sbagliare. Perché sbagliare è umano, evidentemente. Ma forse anche per altro.
«Perché — osserva Luca, ispettore di un Reparto Mobile del Nord — la volontà e l’equilibrio di un uomo lo spezzi non solo con una bomba carta, ma ogni 27 del mese, quando apre la busta paga ». Mediamente più pesante di quelle dei colleghi di altre specialità. Perché rimpolpata da indennità speciali. E tuttavia sempre troppo leggera. Netti, 1.400 euro per un agente, 1.500 per un vicesovrintendente, 2.000 per un sostituto commissario, il vertice del ruolo degli ispettori. Con un dettaglio. Dal 2009, le retribuzioni della Celere, come quelle dell’intera Polizia, sono congelate negli scatti di anzianità e in quelli legati all’avanzamento di grado. E — se verrà confermato quanto ipotizzato nel Def — tali resteranno fino al 2020.
«Una beffa e insieme un danno », spiega Riccardo, agente 30enne di un Reparto Mobile del sud. A metà degli anni 2000, la prospettiva di una “paga migliore”, si fa per dire, ha spinto nella Celere schiere di poliziotti sulla quarantina, convinti di muovere carriere altrimenti immobili. Ma il blocco degli stipendi e del turnover ha trasformato questa “trasfusione” in glaciazione che, nel giro di pochi anni, ha invecchiato i Reparti. Per intendersi, l’età media della Celere di Taranto è 50 anni. I più giovani sono a Senigallia e viaggiano sui 35. Complessivamente, l’età media è stabilmente sopra i 40. «Ogni tanto qualcuno rimane per terra e non si rialza più. Non per una pietra o un colpo di mazza. Ma per infarto », chiosa Riccardo. Già, la piazza non è un luogo per “vecchi”. Ma il rigore di bilancio l’ha resa tale. E questo, a ben vedere, non l’ha necessariamente resa più “saggia”. Semmai, disincantata.
Fulvio, 48 anni, in un Reparto Mobile del Nord da quasi dieci anni, inspira profondamente. Quasi fosse insostenibile ormai anche la fatica di pronunciarle certe parole. «In questo disgraziato Paese non cambia mai nulla... Quando a Torino i colleghi si tolsero il casco di fronte ai Forconi, scoppiò il finimondo. Sembrava che stessimo per ammutinarci. Oggi scoprono che di fronte a una piazza incazzata nera le cose possono mettersi per il verso sbagliato e ci processano per le ragioni opposte. La verità è che di noi non frega nulla a nessuno. Né frega niente e a nessuno di mettere nero su bianco quattro regole quattro che mettano fine a quest’insensata battaglia. Anche stavolta sarà così. Tra qualche giorno, tutti avranno dimenticato. Nessuno avrà messo mano al problema. Fino alla prossima volta. Tra un mese, una settimana. O magari domani».
Carlo Bonini, la Repubblica 19/4/2014