Diego Gabutti, ItaliaOggi 19/4/2014, 19 aprile 2014
ADOLF HITLER COSÌ COM’ERA, SENZA INTERPRETAZIONI FUNAMBOLICHE NELLA BIOGRAFIA (CON FOTO INEDITE) REDATTA DA LUCIANO GARIBALDI
Settant’anni dopo la caduta del Terzo Reich, non si contano più le volte in cui Adolf Hitler, teleguidato dai suoi biografi, ci ha fatto da Virgilio attraverso i gironi infernali d’un XX secolo particolarmente dantesco, dove ai viventi (anche grazie a lui) è toccata la parte dei dannati da consegnare alle fiamme. Dalla Vienna fin de siècle alle trincee della prima guerra mondiale, dalle birrerie di Monaco alle aule dei tribunali della Repubblica di Weimar, dal Reichstag in fiamme ai raduni in stile heroic fantasy di Norimberga, dall’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia su su fino alla guerra-lampo, ad Auschwitz e alla «soluzione finale», Hitler è stato un cicerone infaticabile, lui capocolonna con un elmo vichingo in testa, i lettori di best seller a ruota. Sono biografie con vasta sintesi storicoscientifica a piè di lista: le origini del nazismo nell’economia, nella filosofia tedesca, nella guerra civile che scuote l’Europa del primo dopoguerra, persino nella magia nera e nel satanismo, come nei fumetti dei superoi.
Fa eccezione, per sobrietà del racconto e scarso interesse per l’arte fin troppo sottile dell’interpretazione e dell’arabesco storico, la biografia che dedica a Hitler, Luciano Garibaldi, giornalista e storico. Edito contemporaneamente in italiano e in inglese, Adolf Hitler. Il tempo della svastica (White Star 2014, pp. 287, 19,00 euro, ebook 6,99 euro) è il racconto puro e semplice della formazione di Hitler, della sua ascesa al potere, della guerra che scatenò e della catastrofe che ne seguì, con un excursus sulla storia dell’antisemitismo tedesco e sui pochi isolati tentativi d’ucciderlo da parte di resistenti e congiurati tedeschi.
Hitler non fu soltanto la marionetta del quadro storico generale, come vuole la vulgata marxista, che se la ride del «ruolo delle personalità nella storia», come lo chiamava Plechanov. Come Stalin e il suo Comintern, come il Dux italiano e i fascisti che ne imitarono per decenni le gesta in Europa, in Asia e in America latina, Hitler fu uno dei testimonial dei mala tempora seguiti alla Grande guerra, un trauma da cui il mondo, cent’anni dopo, non si è ancora ripreso.
A volte, in certe biografie, Hitler appare furioso come uno gnomo al quale abbiano rubato l’anello magico, in altre ostenta l’impassibilità d’un Buster Keaton involontario, in altre ancora gli viene riservata la parte dello statista incompreso, del bohémien di successo, del demagogo senz’arte né parte, dell’improvvisatore, del dilettante di talento.
Forse, dice qualche storico, per esempio David Irving, Hitler fu vittima dei suoi sottoposti, che sterminarono milioni d’ebrei a sua insaputa, e anzi a tradimento. Be’, magari questo è troppo, dicono altri, tuttavia fu un eroe della guerra al bolscevismo, o almeno fu a causa della rivoluzione bolscevica, che picchiò di sponda sulla Germania come una palla da biliardo, che la Germania piombò nella malabolgia hitleriana.
Fu lui a incantare la Germania, o la Germania s’incantò da sola e Hitler non fu che lo strumento, il catalizzatore della grande magia? Era consenziente, la Germania, o lui la violentò? Chi dobbiamo ringraziare e con chi ce la dobbiamo prendere? Con la Germania? Oppure col destino? Con Stalin e con Trotzky? Con le democrazie imbelli? Luciano Garibaldi non gioca a questa lotteria. Così come la rosa è la rosa è la rosa, anche Hitler (ahinoi) è Hitler è Hitler è Hitler.
Diego Gabutti, ItaliaOggi 19/4/2014