Riccardo Lenzi, L‘Espresso 18/4/2014, 18 aprile 2014
Gualtiero Marchesi mescola alta cucina, grande musica, grande pittura
[Colloquio Con Gualtiero Marchesi] –
In fondo è anche grazie alla sua influenza intellettuale che oggi le star degli chef sono nominate "Maestri", come un Muti o un Pappano. Un legame antico quello fra la musica e Gualtiero Marchesi, nato a Milano 84 anni fa da una famiglia di ristoratori di San Zenone al Po in provincia di Pavia, considerato appunto il "Maestro della nuova cucina italiana". Del resto fin da ragazzo Marchesi ipotizzò una profonda affinità fra le due discipline e a un certo punto della sua vita smise di suonare perché, spiegò, «dovevo creare una cucina nuova, inconcepibile per il nostro paese; è ora di rivoluzionare le portate, la presentazione, la carta dei vini. Questo è un momento fondamentale, è la rivoluzione culinaria postmusicale». Perché per Marchesi la cucina, come appunto la musica, sono espressioni d’un unico concetto di bellezza: creare una ricetta equivale a scrivere una partitura e i sapori vanno letti e pregustati attraverso lo sguardo, forse addirittura solfeggiati. Per tutte queste considerazioni il Maestro risponde di buon grado all’invito de "l’Espresso", ovvero una conversazione ironica e dissacrante sui rapporti fra le sue due nobili passioni.
Maestro Marchesi, lei ha partecipato a Parigi a una manifestazione sul tema "Bianco e nero". In quell’occasione ha paragonato la tastiera di un pianoforte a una ricetta, componendo un risotto al nero di seppia. Può farmi qualche altro esempio di analogia fra strumenti musicali e piatti?
«Nel "Dripping di pesce", il piatto ispirato all’opera di Jackson Pollock e alla sua tecnica dello sgocciolamento del colore, sono disposti il bianco dei calamaretti e delle vongole, il rosso della passata di pomodoro, il nero, ottenuto unendo alla maionese il nero di seppia e il verde della maionese alla clorofilla di prezzemolo o eventualmente con pesto. È nel momento in cui si inizia ad assaggiarlo, distruggendone la composizione, che si ricrea fino in fondo la suggestione di un quadro alla Pollock. In questo caso, lo strumento che mi pare si avvicini di più è la batteria».
Da quali fini fu ispirato, in occasione della "prima" scaligera dello scorso dicembre, nel preparare per l’occasione quel menù (spaghetti freddi, perlage di tartufo nero…). E cosa preparerebbe per il "Fidelio" del prossimo Sant’Ambrogio?
«L’accostamento a "La Traviata" nasce dal contrasto - principio primo della cucina - tra la morbidezza sensuale del perlage di tartufo e il croccante del sedano sopra gli spaghetti cotti, raffreddati e conditi con olio e sale. Nella vicenda di Violetta c’è il bel mondo parigino, una vita e degli amori contrastati fino alla morte. Un’eroina indomabile e malinconica. Quel piatto mi sembra aderente al tema come un manifesto. Per il "Fidelio", visto che si tratta di un’opera in cui prevale l’anelito alla libertà, la lotta contro la tirannide, sceglierei gli "Spaghetti dritti", cotti in un cestello apposito, insaporiti con una colatina fredda di acciughe, pinoli, uvette e una "democratica" grattata di pane secco al posto del borioso formaggio».
Rossini si vantava di saper cucinare. C’è qualche sua ricetta che l’ha incuriosita?
«Il filetto alla Rossini è nato in Francia, usando il manzo. Trovo che sia più delicato sposare, come ho fatto, il vitello al foie gras».
Una domanda un po’ scherzosa, prendendo spunto dal fatto che sua suocera, Giuseppina Serra, è stata un affermato soprano che ha cantato anche con Mascagni. Se fosse un regista d’opera pignolo come Visconti (che durante le riprese di un suo film metteva fazzoletti d’epoca anche nelle cassettiere chiuse), quando Turiddu canta "Mamma, quel vino è generoso", che tipo di vino utilizzerebbe per la messa in scena?
«Un vino vinoso, un rosso dell’Etna, che faccia ribollire il sangue».
E quale vino per il brindisi di "Traviata" "Libiamo ne’ lieti calici"?
«Anche se la storia si svolge in Francia, e pensando a quanto lo amano gli stranieri, direi senz’altro un Prosecco. Un vino allegro e molto galante».
Sempre per giocare: quale piatto avvicinerebbe (o da quali piatti sarebbe ispirato) ad alcune composizioni? In particolare a capolavori come "Norma" di Bellini, "La Cenerentola" di Rossini, il "Don Giovanni" di Mozart, "Carmen" di Bizet, il "Tristano" di Wagner, il "Falstaff" di Verdi, la "Bohème" di Puccini?
«Caspita, ma questo è un esame! Beh, vediamo se riesco a superarlo. "Norma", bosco, druidi: capriolo con salsa al vino rosso, profumata al mirtillo."La Cenerentola": tarte di frutta sottobosco, con tutto il sottobosco. "Don Giovanni", imprese amorose, quindi un piatto che ricarica e per così dire "maneggevole": scaloppa di foie gras con pane tostato sotto. "Carmen": se coglie l’allusione, proporrei una finanziera (nell’opera Carmen è una bella sigaraia sospettata di contrabbando, ndr). "Tristano": risotto con l’ossobuco che, come lo faccio io, è particolarmente delicato, oserei dire sentimentale. "Falstaff": e se "tutto nel mondo è burla" come recita nell’ultimo atto il buffo seduttore gabbato, allora, un uovo al Burri che è sempre e solo un uovo al burro, eseguito citando il maestro umbro."Bohème": la pasta e fagioli, stendendo prima la crema sul fondo e poi della pasta mista sparpagliata sopra e condita con un po’ di olio e una macinata di pepe nero».
Quali piatti assimilerebbe a interpreti come Karajan, Muti, Abbado e Pappano?
«Per Karajan, la precisione e in fondo la severità di un soufflé; a Muti accosterei il "Riso, oro e zafferano", il quadrato della foglia d’oro al centro del cerchio di riso, tono su tono; ad Abbado "Il rosso e il nero", ispirato ad un quadro materico di Fontana dove in basso nel piatto ho disposto dei pezzi di coda di rospo, cotti nel nero di seppia, lasciando per il resto spazio al rosso laccato di una salsa fredda tipo gazpacho. A Pappano, infine, accosterei dei rigatoni con "o’rraù", il ragù, ricordando le sue origini campane».
E al suono pianistico di Rubinstein, Horowitz, Arrau, Richter o Pollini?
«Lei è implacabile. La tempra di Rubinstein richiede almeno una cassoeula. Per Horowitz, un grande piatto internazionale come il "Pollo alla Kiev". Alla meticolosità e per il modo di suonare lento di Arrau sceglierei "Sapere di sapori zen", una sorta di giardino orientale con il riso al posto della ghiaia o della sabbia. Richter, che alla fine della sua carriera per tenervi i concerti preferiva le sale piccole, raccolte, lo associerei ad una chateaubriand per due. Pollini, infine, mi fa pensare ad un mio dolce al cucchiaio, garbato ed essenziale: zabaglione con spaghetti di riso fritti».
Lei ha citato Gustav Mahler, quando ha affermato che nella partitura c’è tutto, ma manca l’essenziale. Che vuol dire?
«In genere, è con il grande allenamento che il musicista e il cuoco possono realizzare la partitura e la ricetta così come sono state concepite».
Quando un interprete musicale è un cattivo interprete di un brano? Le stesse regole valgono per il cattivo cuoco rispetto a una ricetta?
«Io non amo l’interprete, preferisco piuttosto il bravo esecutore. Il cuoco quando cerca solo di esibirsi sbaglia sempre».
E, al contrario, quando un interprete o un cuoco esaltano la partitura o la ricetta?
«Se la eseguono come il compositore l’ha scritta. Avventura tutt’altro che facile».
Il regista Ermanno Olmi le disse che la cucina è l’arte più grande. Come ha interpretato questo complimento?
«L’ho accettato e condiviso. D’altra parte, Ernesto Illy diceva: "Voi cuochi siete dei chimici dell’intuizione"».
Spesso ha sostenuto che fare il critico è molto difficile: una professione in cui dilaga l’incompetenza. Può farmi un parallelo in questo senso fra critica musicale e gastronomica?
«C’è uno scrittore americano di cui non ricordo il nome che afferma, con molto senno, il concetto seguente: il critico è una persona che dice di conoscere la strada, ma non sa guidare. Un volta esisteva il gusto, oggi i gusti».
Nel giugno 2008, lei contestò il sistema di attribuzione dei punteggi della prestigiosa Guida Michelin, pur essendo stato il primo italiano a ottenere le famose tre stelle. Perché?
«Perché ero stufo di farmi giudicare ad ogni piè sospinto, ma anche perché trovo diseducativo che un giovane cuoco pensi solo alle stelle, ai cappelli o alle forchette, che inizi così la sua dura giornata di lavoro. Si lavora per il piacere di lavorare e per fare ciò che ci piace».
Lei ha fatto più volte un paragone fra il palato e l’orecchio assoluti. Può spiegarci meglio questa analogia?
«C’è chi ha la capacità di cogliere la nota senza guardare lo spartito. Di averla, per così dire, già dentro. La stessa cosa avviene in cucina, soprattutto alle donne, più istintive e meno occupate ad elucubrare come succede invece agli uomini. Una libertà e una serenità che le porta spesso ad arrivare prima».
Un altro parallelo che fece con la musica è quello con il "Metodo Suzuki", osservando che quello fa prima suonare i bambini e poi insegna loro le regole. Ne concluse che va bene fare dei tentativi per spiegare l’arte, ma poi ci vuole un instradamento accademico. È ancora della stessa opinione?
«Lo confermo, parola per parola, avendone la riprova attraverso l’attività di mia figlia Simona che insegna musica a bambini e ragazzi. Lo scopo della Fondazione Marchesi è quello di utilizzare lo stesso metodo per educare giovani e adulti al gusto del bello nel senso più ampio, filosofico e pratico del termine.E siccome ciò che è bello è anche buono, faremo lezione di cucina ai più piccoli e, perché il risultato sia più duraturo, ai loro genitori. Un impegno che potremmo parafrase in: cultura e salute, arte e cucina».
Lei si definisce nello spirito "bachiano", per l’estremo rigore della sua cucina. Può spiegarci più dettagliatamente questo paragone?
«Dovrei citarmi con la frase che ripeto sempre: la materia è forma e con l’esperienza di una vita in cui la scoperta della semplicità si rinnova ad ogni ricetta. Diceva Bach che non importa come tocchi il tasto, perché c’è tutto nella composizione. Quando non violenti la materia e la lasci il più possibile com’è, intuendo il valore profondo delle forme, allora hai cucinato bene, rispettando la salute del prossimo. In fin dei conti, la cucina che penso ogni giorno è la cucina del buon senso».
Schoenberg e Puccini, ovvero avanguardia e tradizione. Anche in cucina c’è chi inventa ricette per cercare il nuovo o, magari, per stupire?
«Tutto è aperto e in divenire, ma questa meravigliosa opportunità non può essere traviata dall’esibizionismo, dall’approssimazione come dal tecnicismo. Ci vuole umanità, studio, senso del limite, perché l’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia».