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 2014  aprile 18 Venerdì calendario

QUI CI VORREBBE UN AYATOLLAH


Ma tu lo metteresti l’Ayatollah Khomeini alla guida dell’Eni? Quello il giorno dopo farebbe fuori tutti... Nelle ultime settimane di Paolo Scaroni sul ponte di comando del colosso petrolifero pubblico, i suoi sostenitori si erano dati il compito di far venire la tremarella al presidente del Consiglio, Matteo Renzi .
Lui, il premier rottamatore, aveva lasciato capire anche pubblicamente di non volere la conferma di Scaroni, che su quella poltrona era stato issato ben nove anni fa da Silvio Berlusconi e Gianni Letta. Ma il manager vicentino, 67 anni, non voleva mollare. La sua linea del Piave era diventata non più una permanenza ormai impraticabile ma piuttosto - spiegano fonti coinvolte nei colloqui - impedire che al suo posto fosse nominato un esterno, «un Ayatollah» determinato a ribaltare ogni scelta dell’attuale gestione.
Di nomi validi, a dir la verità, ne circolavano. Mai stati davvero in gioco i manager di caratura internazionale con cui Renzi si è spesso detto in sintonia, da Vittorio Colao di Vodafone a Andrea Guerra di Luxottica, troppo distanti dall’industria petrolifera, i candidati esterni all’incarico di amministratore delegato erano rimasti in due, Stefano Cao e Leonardo Maugeri, entrambi cresciuti all’Eni, entrambi usciti da anni in rotta con Scaroni. Niente da fare: le pressioni degli ambienti berlusconiani e la voglia di trovare un compromesso hanno avuto la meglio. E Renzi ha ceduto. Niente rivoluzionari, niente vendicatori animati dalla voglia di svuotare tutti i cassetti: al vertice della compagnia petrolifera, una delle più importanti aziende italiane, è stato promosso Claudio Descalzi, un tecnico al quale negli ultimi anni era stata affidata una delle divisioni più importanti dell’Eni, quella che si occupa della esplorazione e produzione di idrocarburi.«Una scelta di continuità», ha scritto il quotidiano "Il Sole 24 Ore".
A prima vista quella di Descalzi, 59 anni, potrebbe essere narrata come la favola del tecnico che riesce a salire tutti i gradini del successo. Nato a Milano, laureato in fisica all’età di 24 anni, entra quasi subito nella compagnia del cane a sei zampe, dove inizia a lavorare come ingegnere di giacimento, come vengono chiamati gli addetti allo sviluppo di un pozzo. Lavora nel Mare del Nord, in Libia, in Nigeria, in Congo. Torna in Italia nel 1990, per assumere quattro anni più tardi l’incarico di responsabile operativo delle attività nell’Africa nera, prima in Congo, poi in Nigeria. Una carriera internazionale che lo porta a trovare una moglie africana e che, soprattutto, lo spinge al massimo livello operativo nel 2006, quando diventa vice-direttore generale della divisione del gruppo dedicata all’estrazione degli idrocarburi. E che si completa due anni più tardi, quando Scaroni lo sceglie per rimpiazzare il fuoriuscito Cao al vertice della divisione stessa, la più redditizia dell’Eni.
Oggi, tuttavia, la nuova vita da numero uno di Descalzi inizia sotto un cielo pieno di nubi. A ben vedere, infatti, la continuità con la vecchia gestione invocata dagli scaroniani nei colloqui con Renzi non è giustificata dai conti che lascia il capo azienda uscente. I problemi, che erano stati già raccontati da "l’Espresso" nel numero 11 di quest’anno, sono stati ribaditi nell’indagine condotta dalla commissione Industria del Senato sul rinnovo delle cariche nelle aziende pubbliche, conclusa con una bocciatura di fatto di Scaroni. In sintesi: gli elevati utili dell’Eni (5,2 miliardi nel 2013, il 23 per cento in più rispetto al 2012) sono stati garantiti solo da alcune maxi-dismissioni. A livello operativo, invece, tutti i settori di attività sono in perdita, ad eccezione della divisione di Descalzi. La quale, però, nel 2013 ha visto diminuire i profitti del 21 per cento, a 14,6 miliardi. E ancora: come ha ricordato la relazione conclusiva firmata dal presidente della Commissione, Massimo Mucchetti, fino al 2001 Scaroni non aveva mai mancato di annunciare ogni fine anno l’obiettivo di superare di lì a breve l’obiettivo produttivo dei 2 milioni di barili di petrolio (o equivalenti) al giorno. E invece nel 2013 si è fermato ancora una volta ben sotto, a 1,619 milioni.
È partendo da questi numeri che, d’ora in poi, si potrà valutare l’operato di Descalzi. Il quale, a oggi, porta su di sé onori ed oneri di quanto avvenuto nel proprio settore di responsabilità. Dagli addetti ai lavori gli viene riconosciuto un ottimo risultato in Congo, dove l’anno scorso il gruppo ha raggiunto una produzione di greggio di 90 mila barili al giorno (seconda sola ai 93 mila estratti in Egitto), nonché la recente scoperta di riserve di gas in Mozambico, molto promettenti anche se richiedono forti investimenti per poter essere sfruttati. Al contrario, dal 2008 a oggi, non è riuscito a invertire la rotta del mega giacimento di metano di Kashagan, nel Caspio kazako. Qui l’Eni guida un consorzio di major che avrebbe dovuto iniziare l’attività estrattiva già nel 2005 e che, invece, era arrivata a farlo soltanto nel settembre 2013. Pochi giorni dopo, però, è stata costretta a interromperla per un problema tecnico legato alla fortissima pressione del gas nelle tubature che collegano a terra gli impianti offshore. In bilancio l’Eni spiega che sono iniziate le riparazioni ma suggerisce che non si tornerà alla normalità prima del 2015. E in un altro passaggio rivela che le autorità kazake hanno chiesto al consorzio danni ambientali per 737 milioni di dollari: un assaggio del contenzioso, sostengono i critici, che il governo di Astana minaccia di aprire sui mancati profitti di questi anni.
Quella nel Caspio non è l’unica bega che Descalzi si trova a dover affrontare, in un mercato sempre più difficile per tutte le compagnie occidentali. Le più significative sembrano due. La prima riguarda la richiesta avanzata dal parlamento nigeriano al proprio governo di sospendere alcune concessioni dell’Eni e di Shell, dopo le accuse di corruzione su cui indaga anche la Procura di Milano. Una richiesta che la compagnia petrolifera, interpellata dal quotidiano "il Fatto", ha definito «non vincolante» per il governo ma che rende più complessa la situazione dell’Eni nel delta del Niger, dove la produzione di greggio è scesa in due soli anni da 96 a 73 mila barili al giorno.
La seconda questione, che tocca intreressi strategici decisivi, riguarda, invece i contratti capestro (chiamati take or pay) firmati con la Russia per la fornitura di gas, che vincolano il gruppo a pagare comunque certi quantitativi di metano, anche se non consumati: l’Eni, ha scritto il senatore Mucchetti nella sua relazione, ha capito in ritardo la rivoluzione partita negli Stati Uniti con il cosiddetto "shale gas", estratto da giacimenti racchiusi in rocce non permeabili, più difficili da sfruttare: avrebbe potuto utilizzare questa nuova disponibilità sul mercato per rivedere i contratti con Mosca, e non lo ha fatto, pagandone un prezzo altissimo.
Che cosa dovrebbe fare Descalzi per uscire da queste difficoltà? Puntare sul suo, l’esplorazione e l’innovazione tecnologica, dicono gli esperti. E, magari, tradire le aspettative di chi ha tifato per la sua nomina. Rivoluzionando tutto. Senza impiccare nessuno, come faceva l’Ayatollah Khomeini. Ma aprendo i cassetti segreti. E rimettendo tutto in discussione.