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 2014  aprile 18 Venerdì calendario

STELLA RAMPANTE


C’è un sms che Luigi Di Maio non cancella mai: «O sei uscito pazzo, Beppe, o sei invecchiato!». L’ha inviato pochi giorni fa al grande capo Beppe Grillo, dopo un’intervista dove il guru dei Cinque stelle s’era lanciato in uno strano, bizzarro endorsement: «Io imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto», aveva detto beffardo Grillo. Apriti cielo, nel partito che non è un partito, dove uno vale uno, dove il guru vive nel blog e compare come un’epifania a ogni ora del giorno e della notte. Sarà uno scherzo, ha pensato il vicepresidente della Camera. E invece no. Dopo quell’sms, Beppe ha risposto con tre parole: «Dicevo sul serio». Che succede, dunque, nei Cinque stelle? Che fine ha fatto il "non expedit" per i talk show? E la caccia al candidato anonimo? «Si sta aprendo la fase 2», sussurrano i grillini, «alla faccia di fascismo, stalinismo ed epurazioni». La fase in cui, archiviati i primi inciampi alla Vito Crimi, parte lo scountig interno del Movimento. A caccia di volti buoni da lanciare alle politiche. A partire dal candidato premier.
Ed ecco che in pole position c’è finito proprio un appassionato di Formula Uno come Di Maio, «dica pure: super stra mega sfegatato tifoso della Ferrari, grandissimo Schumi, mai creduto in Raikkonen, Alonso bravo ma sfortunato con le macchine», elenca fiero. Classe ’86, undici anni suonati in meno di Matteo Renzi (che gli inviò i famosi bigliettini per invitarlo al dialogo, mentre lui pubblicò tutto in Rete: «Credevo scrivesse a Sibilia», racconta, «poi ho visto che ero io il destinatario e sono andato fuori a fotografarli»), è ormai il volto più noto del Parlamento a cinque stelle. Quello cui il Nobel, Dario Fo, non risparmia complimenti («Inimmaginabile»). Quello che ha dichiarato zero euro («ma ho fondato un sito di e-commerce che va benissimo, poi mi sono candidato e sono uscito per non mettere in difficoltà i soci»), eppure si taglia stipendio e benefit. Quello che da piccolo leggeva la Storia d’Italia di Montanelli e le biografie di Pertini e poi è stato folgorato sulla via del Web, al punto che al liceo «insegnavo io informatica ai professori di informatica».
Natali a Pomigliano d’Arco, anzi all’ospedale di Avellino («era l’unico che funzionava»), a casa Di Maio il politico era sempre stato papà, ex militante di An ai tempi in cui Fini riempiva le piazze: «Ha sempre detto di stare con la vera destra, io invece avevo le mie idee», dice il vicepresidente della Camera. Al punto che, quando Luigi s’è presentato alle comunali con i Cinque stelle, babbo pare non l’abbia neppure votato. Ricambiato poi dal figlio nel 2006, unica tornata elettorale dell’era avanti Grillo, quando il rampollo ha messo la crocetta su "Noi Consumatori". Se qualcuno si azzarda a dargli del fascista, poi, ti sciorina pure un aneddoto sulla sua prima missione di Stato in Slovenia, con i presidenti delle Camere dei Balcani: «Si presenta quello del Montenegro, che sta seduto lì da 4 o 5 legislature, e mi fa: "Siamo preoccupati dal M5s". Come se fossimo noi a occupare il Palazzo da trent’anni. Figuriamoci, detto da uno che sta seduto lì dal 1989. Io certo non ci starò così tanto. Quando avremo finito la nostra missione, tornerò alla mia passione: il Web».
La sua storia non comincia on line, però, ma fra le crepe nel cemento armato di una scuola diroccata. È il liceo Imbriani di Pomigliano d’Arco, cittadina di 40 mila abitanti alle porte di Napoli, quella che il 14 gennaio prega per San Felice ma per decenni è stata soprannominata la Stalingrado del Sud. «Lì la sinistra vinceva sempre», dice Di Maio. Tranne quella volta nel suo liceo, dove un gruppo di studenti si presenta alle elezioni d’istituto. Il programma? Un punto: costruire una nuova scuola. E, destino infame, di quel primo successo politico targato Di Maio sarà complice una delle tragedie italiche: il terremoto del Molise. Nell’ottobre 2002 il progetto del nuovo liceo si scontra infatti con la realtà del Bel-brutto-Paese, fatta di appalti truccati, collaudi fantasma, vittime innocenti. «Il crollo della scuola di San Giuliano di Puglia, la morte di quei bambini, ha cambiato tutto», racconta il vicepresidente della Camera. Un gruppo di studenti corre dal preside, entra nella stanza e propone uno strano patto: «Mai più un giorno di assenza, scioperi banditi, ma gli insegnanti dovranno manifestare con gli studenti», racconta Di Maio. E così andò, finché il progetto partì e il nuovo Imbriani sorse dal nulla in un paio d’anni. Alla posa della prima pietra, ormai iscritto a Giurisprudenza (neo, nel curriculum del grillino, quella laurea che ancora non ha appeso al muro: «Ma sto scrivendo la tesi», esorcizza), fu proprio lui l’ospite d’onore. Al punto che quella foto è diventata il suo portafortuna. Prima con Beppe Grillo, che ha conosciuto a Pomigliano dopo avere fondato uno dei primi meet up del Sud assieme all’inseparabile amico Dario De Falco («Da piccolo ho vaghi ricordi di Beppe, quando in televisione parlava della Sip. Ma erano i miei che lo guardavano»). Poi nei corridoi di Montecitorio, quel labirinto di stucchi e mezzi busti in marmo, che l’ha visto salire in pochi giorni ai piani alti. Da peone grillino di periferia, a vice di Laura Boldrini.
Un mezzo choc, racconta: «Già le "parlamentarie" per la candidatura furono un trauma. Non dormii per due notti». E figurarsi. Lui che non avrebbe mai creduto che il movimento del Vaffa diventasse un partito. D’altra parte, alle comunali del suo paese aveva preso 59 voti. Più di tutti nel M5s, ma pur sempre pochini. «Sul sito di Grillo andò meglio: 189 preferenze per la Camera. E quando fui eletto il cellulare cominciò a squillare per 48 ore di fila. Io non risposi. Ero stonato, stanco, confuso. Non ricordo nulla di quei due giorni. Vuoto totale».
Ricorda bene, invece, il triplo salto fino alla vicepresidenza della Camera: «Arrivai tardi alla Sala della Regina, dove si selezionavano i candidati», continua. «La collega Vega Colonnese mi disse: "Proponiti tu". Io la guardai e dissi di no. Ma lei non mollò: "Ogni volta che uno buono non si fa avanti, c’è uno meno buono che gli fa il posto». Così ripensò alla prima pietra del liceo, quella della foto. E pure ai consigli di papà. A quando chiese lo streaming del consiglio comunale a Pomigliano e la sinistra perse le elezioni. Partecipare. Partecipare. Partecipare: «Mi alzai e andai a parlare agli altri. Dissi semplicemente: "Non chiamerò mai più i deputati "onorevoli". E fui eletto subito». Con tanto di commessi ai lati ed elenco dei privilegi da casta sulla scrivania di rovere: indennità, auto blu, appartamento, camerieri. Tutto pronto: «È qui che mi sono reso conto che i funzionari della Camera erano bravi, perché dissi che volevo rinunciare e loro mi risposero: "Non è mai avvenuto, ma studieremo un sistema"». Sistema trovato. Tanto che Di Maio non soggiorna a Montecitorio, ma ha traslocato da un bed&breakfast in via Rasella («quattro in una stanza») a un appartamentino in zona Flaminia con altri due onorevoli, pardòn cittadini, dei Cinque stelle. E fanno a turno per i week end. «Mentre la Boldrini disse che li avrebbe dismessi gli appartamenti e invece sono lì. Pietro Grasso, poi, ci è addirittura tornato», attacca.
Alla Camera già lo chiamano mister cartellino rosso: «Chi sgarra, fuori! Lo dice il regolamento e io me lo sono studiato bene. Ho seguito i consigli di un funzionario che mi ha detto: "Presidente, qui tutto quello che succede, è già successo. Basta leggere». E così s’è appassionato di espulsioni. A dargli il La è stata quella del leghista Gianluca Buonanno. Quello che s’è tinto la faccia di nero. E sempre quello che, nel pieno del dibattito sullo svuotacarceri, ha esposto un cartello: "Pd complice dei mafiosi!". «Ho tirato fiato e ho detto: "Decreto l’espulsione del deputato Buonanno dall’aula. I commessi lo allontanino"... e mi sono resto conto che si poteva fare». Una specie di battesimo del fuoco, replicato pure con i grillini. Al suo attivo tredici cacciate dall’aula: otto sono pentastellati. «Li richiamavo perché sforavano i tempi», dice. Ma nessuna censura giunse dall’alto. Nessuna telefonata di Grillo o Casaleggio che, giura, si fanno sentire davvero poco. «Casaleggio lo chiamo io nell’80 per cento dei casi. E sempre per cose teniche. Alla fine furono Cicchitto e Giachetti che mi fecero i complimenti». Qualche mugugno fra i grillini, invece, che ripetono «Di Maio ha il faccino buono ma è peggio del Capo. Pure Beppe lo dice». Lui glissa: «Mi riconoscono una certa imparzialità, un certo distacco».
Un po’ come con le donne. «Sono single per ragioni politiche», spiega serio. Non alla maniera di Paola Binetti, però, piuttosto per problemi d’agenda: «Il più grande nemico dei miei rapporti sentimentali è stato il Movimento 5 stelle», sorride. Strano nell’Italia di Silvio e della sua corte, nella Roma delle feste e del tirare tardi. Ma buona notizia per le fan, e ne conta parecchie in Transatlantico, dove a dire il vero pure un paio di onorevoli maschietti stravedono per il "Grillo rampante", come lo chiamano già. «Mettere su famiglia? Già ce l’ho, sono i pentastellati», taglia corto. A pari merito con la sorella e col fratello diciottenne. Ai quali – giura – non chiederà mai il voto. Forse perché non ce n’è bisogno.