Luciano Ferraro, Corriere della Sera 18/4/2014, 18 aprile 2014
«I MIEI QUATTRO VINI NATI IN UMBRIA MA INTERNAZIONALI»
Sabato pomeriggio, la cantina Falesco è in piena attività. Fuori le colline di olivi umbri di Montecchio. Dentro, su un nastro trasportatore che ricorda una catena di montaggio, scorrono le 45 mila bottiglie di Massimo D’Alema. La moglie, Linda Giuva, assiste al rito del primo imbottigliamento dei quattro vini dell’azienda La Madeleine. Con lei due super enologi, Riccardo e Renzo Cotarella. Il primo vino ha un nome politico: Sfide. Altri due nomi sono divertimenti linguistici: NarnOt (crasi per Narni e Otricoli, dove si trovano le vigne) e Nerosé, che evoca Pinot nero e rosé. Il quarto è una resa alla semplicità: Pinot Nero. Punto.
D’Alema arriva da Roma, dove ha scosso la minoranza pd dal palco del Teatro Ghione. Cosa c’è nel suo Pantheon eno-politico? Bertold Brecht, forse: «Sempre pronto a una nuova idea e a un vino antico». Oppure una citazione sui «contadini pionieri delle cantine sociali, apripista degli imprenditori del vino» (Emanuele Macaluso, «50 anni nel Pci», Rubbettino)? No, i riferimenti sono testi in francese su Bordeaux e Borgogna. D’Alema parla a ruota libera del suo vino, con lo stesso tono di mille discorsi pubblici.
Spiega dettagli tecnici sulla produzione dei solfiti, racconta incontri con nobili e piccoli viticoltori. Ha studiato. S’è appassionato. Descrive i 7 ettari della Madeleine, «terra d’argilla e calcare, 300 metri d’altezza, Cabernet franc e Pinot nero. A un’ora da casa, perché questa campagna la voglio vivere. Faccio anche l’uomo di fatica, scarico cassette d’uva da 20 chili». Linda Giuva: «La Madeleine era un allevamento. Abbiamo mantenuto il nome: ci sono le nostre iniziali. E si può anagrammare con Linee D’Alema».
È arrivato in Umbria 6 anni fa. «Mio padre qui aveva un casale, l’abbiamo ceduto perché non lo usavamo: poi ho acquistato la barca Ikarus. L’ho venduta e sono ritornato qui. Il vino è una passione, non un hobby. Con Linda abbiamo capito che se non si vuole perdere troppi soldi, bisogna lavorarci sodo». Il 2014 è iniziato bene: 6.000 delle 8.500 bottiglie di NarnOt, Cabernet Franc in purezza, sono vendute prima ancora di uscire dalla cantina. Il vino appena finito in bottiglia convince sia i Cotarella sia i D’Alema. Soprattutto il NarnOt. «La qualità nel tempo, l’evoluzione della specie», declama l’ex premier. La moglie vorrebbe frenare l’entusiasmo. Durante una cena sferrò un calcione al marito invitandolo a fare come il padrone di casa Piero Antinori, che non ama elogiare i propri vini, preferendo il giudizio degli ospiti. «Sì — rispose D’Alema — ma gli Antinori fanno vino da 28 generazioni, noi da una. Dobbiamo promuoverci». Risate.
Niente autoctoni alla Madeleine. «Abbiamo scelto vitigni internazionali, come a Bolgheri. Abbiamo studiato i terreni e contattato Riccardo Cotarella, diventato il nostro enologo. I nostri sono vini de-territorializzati. Idee nuove, come quella del Pinot nero anche Metodo Classico così a Sud, con un vitigno così del Nord».
Leggenda vuole che D’Alema sia un cultore di grandi cru francesi. «Mi piacciono i vini buoni. Alcuni francesi sono molto buoni. E anche molto costosi. I preferiti?». Citazione da cultore: «Ho una inclinazione per la Borgogna, per Denis Mortet, piccolo vignaiolo, morto suicida, le sue bottiglie si trovano ancora». Tra i vini italiani ricorda il Masseto («il nostro Chateau Petrus, Merlot in purezza») e il Montevetrano («Che mi ha avvicinato a Cotarella»). «E molti altri. Ho una certa tendenza a riconoscere il vino buono. Per l’enogastronomia ho una passione antica, fin da quando dirigevo l’Unità , lanciai il Salvagente e seguii la nascita di Slow food del nostro ex collaboratore Carlin Petrini». Ora D’Alema è amico di Marco Caprai, l’uomo del Sagrantino, stima Gianfranco Fino e lo «splendido Primitivo», giudica Angelo Gaja «un monumento nazionale» e cita Antinori tra i modelli per il vino italiano.
Come è accaduto quando stava al timone di Ikarus, anche nelle vesti di produttore di vino D’Alema è stato bersaglio di critiche. Che prima schiva: «Mai viste, preferisco leggere romanzi». Poi respinge: «Non cerco status symbol. La barca era una passione vera, condivisa con altri. Questa del vino anche. Abbiamo fatto un mutuo pazzesco, impegnando i nostri risparmi e quelli dei figli. Abbiamo redditi normali, apparteniamo alla borghesia, non siamo ricchi». Un’avventura che D’Alema definisce «iper-correttissima: abbiamo convertito i risparmi da beni voluttuari a investimenti produttivi, volti a incrementare Pil e l’occupazione. Rispettando l’ambiente: energia solare e un vino senza solfiti».
L’uomo politico per il vino al governo è dello stesso partito dell’ex premier, Maurizio Martina. Quando era segretario lombardo, D’Alema lo gelò chiedendogli chi giocasse quel giorno a San Siro. Il futuro ministro dell’Agricoltura tentennò e il leader lo rimproverò: «un segretario non può non saperlo». «Togliatti — ricorda D’Alema — lo ripeteva ogni lunedì: come può il dirigente di un partito di massa ignorare il risultato della Juve?». Il giudizio su Martina è positivo: «Si sta impegnando a fondo per valorizzare il settore del vino». Così, assieme a Brecht, nel Pantheon eno-politico, sembra esserci un posto per il cantautore Claudio Lolli con la sua lode all’Albana di Romagna: «La sinistra vecchia e quella nuova, Togliatti stai tranquillo, la uniamo con il vino».