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 2014  aprile 17 Giovedì calendario

VIA DALL’EURO? NEL CONTO I DEFAULT A CATENA


È vero: l’euro è troppo forte per le ormai deboli spalle dell’industria e dell’export italiano. Gli economisti di Morgan Stanley stimano che il Paese possa sopportare un tasso di cambio sul dollaro non superiore a 1,19: oltre questa soglia soffre. L’attuale rapporto con il biglietto verde, intorno a 1,38, è dunque una camicia di forza. A questo punto nasce spontanea una domanda: uscire dall’euro risolverebbe i nostri problemi? Una risposta certa non può esistere (non ci sono precedenti), ma una altamente probabile esiste eccome: è «no».
L’uscita dell’Italia dall’euro (soprattutto se unilaterale) potrebbe infatti provocare una serie di conseguenze negative, che potrebbero essere di gran lunga superiori agli auspicati benefici. Non solo inflazione, rincaro delle materie prime e aumento dei tassi d’interesse. Ma, probabilmente, anche il default a catena dello Stato, degli Enti locali, delle banche e delle imprese che hanno emesso prestiti obbligazionari sui mercati internazionali. Partiamo da questo punto.
IL VERO PERICOLO
Quando l’Italia è entrata nell’euro, tutti i debiti (inclusi quelli dello Stato) sono stati trasformati nella nuova moneta senza nessun problema. In quel caso, infatti, la lira è sparita ed è stata sostituita da una nuova valuta. Purtroppo il processo inverso potrebbe non essere altrettanto indolore: se infatti l’Italia tornasse alla lira, ma l’euro continuasse ad esistere come valuta di altri Stati, quasi tutti i prestiti obbligazionari sarebbero costretti a restare denominati in euro.
A farne le spese sarebbero innanzitutto le imprese, le banche e gli Enti locali che hanno emesso, negli anni passati, prestiti obbligazionari sui mercati internazionali (secondo Dealogic sono 50 le aziende italiane in queste condizioni): i loro bond – per una consuetudine di mercato – sono in gran parte sottoposti alla legge e alla giurisdizione inglese. Insomma: sul loro destino decidono le Corti di Londra, non i Tribunali italiani. «Se non fosse trovato un accordo consensuale per l’uscita di un Paese dall’euro – scrivono in un «paper» i legali dello studio Clifford Chance – per questo tipo di obbligazioni la Corte inglese chiederebbe il rimborso in euro».
Qui nasce il problema: se l’Italia tornasse alla lira, è verosimile immaginare che la nuova (anzi, vecchia) moneta si svaluterebbe. Mediamente, secondo un calcolo del Cepr, tutti i Paesi che in passato hanno abbandonato le unioni monetarie mediamente hanno subìto una svalutazione del 46%. Questo metterebbe in crisi le imprese, le banche o gli Enti pubblici che hanno sul mercato obbligazioni: perché il loro fatturato verrebbe trasformato in una lira che si svaluta, ma i loro debiti resterebbero in un euro sempre più forte. Questo, in parole povere, comporterebbe un aumento insostenibile del debito espresso in obbligazioni (non di tutti i debiti). Morale: le maggiori aziende (le 50 che hanno obbligazioni), le banche e gli Enti locali rischierebbero il default. E lo stesso accadrebbe se anche decidessero arbitrariamente di rimborsare tutti i bond in lire: questo – secondo i giuristi – costituirebbe un evento di default.
A questo rischio sembrano non essere immuni neppure i titoli di Stato, cioè a quella montagna da 1.700 miliardi di euro di BTp, BoT e CcT: sebbene siano sottoposti alla legge italiana, non sarebbe possibile trasformarli in lire con un atto d’imperio. «Se un emittente di titoli di Stato cambia arbitrariamente le condizioni dei titoli – spiega un addetto ai lavori che ha studiato il dossier –, questo farebbe scattare automaticamente il default». Su questo, però, alcuni giuristi sono di parere opposto.
Questo in caso di uscita unilaterale dell’Italia dall’euro. Sarebbe invece diverso il caso in cui l’euro sparisse dalla faccia della terra: in quel caso la ridenominazione dei bond (titoli di Stato inclusi) potrebbe avvenire nelle nuove valute. «Potrebbero anche essere trovati accordi internazionali per gestire i pagamenti dei bond dei debitori residenti in un Paese che lascia l’euro», osserva l’avvocato Paola Leocani dello studio White & Case. Anche in questo caso l’esito finale potrebbe essere più favorevole. Ma, a priori, è difficile fare previsioni: il rischio di default a catena è alto.
La svalutazione «competitiva»
L’altra grande conseguenza dell’uscita dall’euro sarebbe la violenta svalutazione della lira. Questo darebbe fiato alle esportazioni. Ma, come un effetto boomerang, renderebbe carissimi i beni importati, a partire dalle materie prime: la bolletta di famiglie e imprese diventerebbe salatissima. La domanda è: i benefici derivanti dalle esportazioni riuscirebbero a superare i danni derivanti dal caro-energia? Se si prova a fare i conti della serva (in euro), si scopre che le esportazioni pesano per il 30% sul Pil, mentre le importazioni (tutte) per il 28%. Difficile però prevedere come varierebbero con una lira svalutata. Si può solo guardare alla storia: secondo uno studio del Cepr, le forti svalutazioni del passato nel mondo (a partire da quella dell’Argentina dopo il default del 2001) hanno mediamente fatto perdere al Paese il 4,5% del Pil, prima di farlo ripartire.
Ma c’è dell’altro. Se la lira si svalutasse così violentemente, il caro-energia causerebbe un aumento dell’inflazione. Per combatterlo, la Banca d’Italia sarebbe costretta ad aumentare i tassi d’interesse. «Questo rincaro, unito all’indebolimento delle imprese, potrebbe aggravare non di poco il credit crunch», osserva Alberto Gallo, economista di Rbs. Certo: la Banca d’Italia potrebbe intervenire con misure d’emergenza. Ma il loro successo, a priori, è incerto.
TUTTA COLPA DELLA MONETA UNICA?
Ma c’è anche un’altra domanda alla quale bisogna rispondere prima di valutare l’uscita dalla moneta unica: è sicuro che i nostri mali siano stati causati dall’euro? La percezione di molti italiani è questa, per un motivo comprensibile: ai tempi della lira si stava meglio. Ma siamo sicuri che il problema sia solo l’euro? Anche qui la risposta è no. Perché, in contemporanea con la nascita della moneta unica, sono avvenuti almeno due grandi cambiamenti che hanno contribuito a pesare sull’Italia: la dinamica del debito e la globalizzazione.
Iniziamo dal debito. L’Italia nel 1983 aveva un debito pubblico pari al 68% del Pil. Livello che oggi si sogna anche la Germania. Ma nei 15 anni successivi lo Stato non ha fatto altro che indebitarsi: così il 31 dicembre 1998 (data in cui è nato l’euro) il nostro debito è arrivato al 114% del Pil. Questo ha ovviamente favorito per 15 anni la spesa pubblica (con tutti gli sprechi), che ha dato la sensazione a tutti di una maggiore ricchezza: lo Stato poteva assumere, dare appalti e così via. Però quando è entrata nell’euro, l’Italia si è trovata con troppi debiti, troppi sprechi e poche risorse.
Ma la festa non è finita subito. Perché la nascita dell’euro, e l’abbassamento dei tassi, ha favorito negli anni successivi la crescita del debito privato. Come si vede nel grafico a fianco (elaborato dal Servizio studi di Intesa Sanpaolo), dal 2000 al 2012 la quantità di credito concesso dalle banche alle imprese è raddoppiato. Anche questo ha dato la sensazione di benessere: quando ci si indebita, ovviamente, si hanno più soldi. Purtroppo anche le imprese non hanno usato bene i denari: mentre il loro debito raddoppiava, la produzione industriale calava del 20% e gli investimenti aumentavano di appena il 10%. Così, dopo il crack di Lehman Brothers, la festa è finita davvero: lo Stato italiano non poteva più indebitarsi e le banche hanno smesso di foraggiare le imprese. Il caro-euro ha di certo aggravato i dolori, che però hanno radici più profonde.
L’altro fenomeno è la globalizzazione. Negli anni ’80 la Cina contava per meno del 2% del totale esportazioni mondiali. Nel 1998, quando è nato l’euro, la sua "quota" nel mercato globale era ancora ferma al 3,5%. Ora è al 12%. E alla Cina vanno poi aggiunti gli altri Paesi emergenti. Morale: l’Italia, proprio quando ha adottato l’euro, si è trovata a fronteggiare una concorrenza spietata che prima non esisteva. Anche qui il caro-euro non giova, ovvio. Ma la domanda è: basta una maxi-svalutazione (con tutti gli sconquassi che comporta) a mettere tutto a posto? O il problema è più strutturale? Una risposta unica a queste domande non esiste, ma prima di uscire dall’euro almeno bisognerebbe porsele.
m.longo@ilsole24ore.com

Morya LongoIl Sole 24 Ore 17/4/2014