Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 17/4/2014, 17 aprile 2014
VENTICINQUE ANNI DI BLOB LA CADUTA DEL MURO TV
Ma che bella faccia da cazzo, non ne ho mai viste così, bravo complimenti, proprio una bella faccia da cazzo”. Il reiterato accostamento tra il Vittorio Gassman in vestaglia di Tolgo il disturbo e la cravatta al collo di uno sfatto, sudato, provato Onofrio Pirrotta, volto del Tg2 colto in una pausa assassina, costò a Blob e ai suoi montaggi alternati la prima querela. Era il 1991, qualche muro era già caduto e nella ricostruzione del presente, la trasmissione nata nel mese più crudele del 1989, il giorno 17, da un’idea di Marco Giusti ed Enrico Ghezzi, demoliva certezze e punti di vista sostenendo lo sforzo con surrealismo e cattiveria. Il primo a immaginare un contenitore fu Andrea Barbato. Nella libera Repubblica Rai di Angelo Guglielmi avrebbe voluto dar vita a Fluff, uno spazio anarchico, in cui confluissero disordinatamente frammenti di realtà rielaborati dalla riflessione, comici alla ribalta, risorse della rete, cazzeggio, confusione.
Giusti, a cui Barbato in vista del programma aveva chiesto una rubrica sul meglio della settimana, rilanciò proponendo una lettura deformata del quotidiano con lente d’ingrandimento e fari accesi sul peggio. Il chi è, chi non è, chi si crede di essere di d’agostinesca memoria immesso nel frullatore della sapienza filmica, della citazione colta, della sovrapposizione ora barocca, ora secchissima dei tanti ipertrofici io del caravanserraglio televisivo, della politica, dello spettacolo. Venticinque anni dopo, messe in bacheca quasi ottomila puntate e mille monografie, dire cosa sia rimasto del Blob originario e dei tanti nomi da Giorgini a Papo che spingevano alla gratitudine a fine messa in onda, è difficile. Peso dell’abitudine e mimesi non sempre volontarie hanno intorbidito le acque. Confuso il quadro. Reso meno eroico il tentativo che al principio bloccò di fronte allo schermo torme di spettatori del tutto disabituati a osservare le maschere del palazzo e a vederle denudate nel confronto/scontro tra lo sconcio esercizio del potere, la supposta eresia di Moana Pozzi o la presunta innocenza di un cartone animato Metro Goldwyn Mayer o di una scheggia di Carosello. Come accade alle truppe in cui le intelligenze confliggono, il ritmo non dà requie e le fiamme rischiano di infiammare fuochi non sempre indirizzabili, anche al plotone di Blob toccò la sua diaspora. Il nucleo iniziale si parcellizzò, gli amici di un tempo litigarono, la trasmissione che nei decenni rimase piccola ma essenziale vedetta sull’orrore spacciato per normalità cambiò forma, registro e inclinazione.
Anche a un quarto di secolo di distanza, Blob rimane un miracoloso corto circuito sopravvissuto ai conformismi e alle castrazioni preventive. Un ambito senza regole. Uno Stato canaglia al di fuori delle leggi. Così domani, nel Paese che non dimentica mai un anniversario, in luogo di una funeraria scritta nera, su tutti i programmi di Rai Tre passerà in sovrimpressione quella rossa. Forse la stessa del fluido mortale di Yeahworth, anno di grazia 1958. Forse un’altra. Quattro lettere in croce. Aspettando il trentennale e un’idea anche solo paragonabile al lampo dell’89.
Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 17/4/2014