Paolo Zellini, la Repubblica 17/4/2014, 17 aprile 2014
E FU COSÌ CHE I GRECI INVENTARONO L’ALGORITMO
Hanno gli scienziati bisogno della filosofia? Se lo chiedeva qualche tempo fa Gerald Holton, storico e filosofo della scienza, sulle colonne del Times Literary Supplement . La risposta era sorprendente. Se ancora Einstein sosteneva che la scienza che ignori l’epistemologia e le opere dei classici - da Platone a Hume, da Sofocle a Spinoza - è primitiva e confusa, dalla metà del XX secolo era prevalsa una fiducia agnostica, audace e anti-epistemica, ben più ispirata all’esteriorità delle applicazioni che alla ricerca introspettiva dei fondamenti.
Tanto che la lettura di quei classici sembrava inutile, faticosa e ottenebrante. Eppure mai come negli ultimi decenni la scienza è stata feconda e ricca di nuovi metodi e risultati. A salvarla dall’anarchia, ipotizzava Holton, sarebbe stata un’epistemologia pur sempre efficace, anche se nascosta e non pienamente consapevole; occorreva cercare, per riscoprirla, nuove tendenze compensatrici e centripete. Forse un nuovo sguardo verso il passato?
Del resto, a ben guardare, non assistiamo sempre a un superamento delle vecchie concezioni scientifiche. Tra scienza antica e moderna c’è un bilancio complicato: nella matematica antica troviamo un rigore e una complessità confrontabili con quella moderna; gli scienziati contemporanei ne hanno generalizzato e smaterializzato i procedimenti, con formalismi astratti, efficaci e pieni a loro volta di un’intenzionalità e di un potere ermetico che spinge sempre a nuove scoperte. Almeno dal ‘600 è stata inventata un’algebra che, ha osservato il matematico Henri Lebesgue, «pensa spesso al posto di chi la impiega». Abili maestri possono oggi addestrare i loro giovani allievi alla manipolazione meccanica dei simboli algebrici, ma è sempre «con l’aritmetica che li fanno ragionare». Possono ora i meccanismi dell’algebra moderna prescindere dalle argomentazioni matematiche di Euclide, di Archimede o di Apollonio? Quanto è davvero distante, oggi, la computatio algebrica dal pensiero e dal ragionamento aritmetico dei matematici greci, indiani o babilonesi che ancora la ignoravano?
I matematici greci seppero piegare la lingua comune a un ragionare preciso, fatto di teoremi, ipotesi, dimostrazioni, definizioni e problemi, e dal loro pensare i numeri e lo spazio ebbero origine figure, algoritmi e tecniche di ragionamento. Una conquista che ancora sorprende; un passaggio arduo, delicato e perfino improbabile. Ne erano esempi i procedimenti di divisione tra grandezze e le tecniche di analisi e di sintesi. Analizzare voleva dire ricondurre una tesi a un principio riconosciuto, di cui quella fosse una conseguenza; come pure cercare le condizioni che rendono possibile la risoluzione di un problema qualsiasi. Nell’analisi interviene l’intuizione invece della deduzione, un ricercare all’indietro i princìpi, indovinando via via gli anelli della catena che, percorsa in senso inverso, sarà la sintesi, cioè la dimostrazione o deduzione della tesi. Con i termini bottom upe top down si denotano oggi percorsi di ricerca simili, rispettivamente, all’analisi e alla sintesi. Ne faceva già uso Platone: l’ anamnesi e i cammini dialettici erano un’ascesa del pensiero, un movimento anagogico di cui l’analisi geometrica era un’illustrazione esemplare. Se ancora nel primo ‘900 la matematica era pensata da molti come un sistema ipotetico-deduttivo, dopo la scoperta dell’incompletezza dei sistemi formali negli anni ‘30 si dovette rivalutare l’importanza dell’intuizione tipica dei processi analitici.
Analizzare è anche “ridurre” un problema a un altro, cioè ricondurre la risoluzione del primo a quella del secondo. È un criterio già applicato nel V secolo a.C. da Ippocrate di Chio, che seppe ricondurre il problema della duplicazione del cubo — tra i più importanti della scienza antica — alla ricerca di due medi proporzionali. Di un’analoga tecnica di riduzione si è valsa la scienza del calcolo negli ultimi decenni: per dimostrare che un problema è indecidibile, cioè non risolubile in modo meccanico, si dimostra che a esso è riducibile un problema di cui è nota l’indecidibilità; una strategia estesa allo studio della complessità degli algoritmi, da cui dipende la risposta a una delle principali domande della scienza dell’ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato?
Per studiare i nessi tra scienza moderna e pensiero antico occorre il contributo di esperti di diverse discipline, con ricerche inter- disciplinari tra matematica e filologia di cui in passato hanno dato esempi straordinari Otto Toeplitz, Abraham Seidenberg e Otto Neugebauer. Fanno oggi da modello centri di ricerca come il Needham Research Institute di Cambridge, soprattutto per l’antica scienza cinese, e il Max Planck Institute for the History of Science di Berlino, dove si studiano i significati di concetti fondamentali della scienza, come quello di numero, di movimento, di forza o di organismo nella prospettiva di una “epistemologia storica”. Anche in Italia si pensa ora a progetti per lo studio di forme del sapere antico di cui si è avvalsa la ragione scientifica. Lo scopo è anche di recuperare gli schemi e i profili di ragionamento che sono una specie di a priori, un presupposto evidente di ogni scienza concepibile. È lo studio della scienza antica, dalla fisica alla medicina, dalla matematica alla geografia, a evidenziare questi a priori , ma occorre interrogare anche altre fonti. Nei testi filosofici, come pure nell’ epos e nei poeti tragici, non mancano parole che rimandano al pensiero scientifico. Risalgono al pensiero antico complesse strategie computazionali, di cui si avvale ancora oggi il calcolo scientifico su grande scala. Ne dipendevano non soltanto la scienza e la tecnica, ma anche l’etica, la metafisica e la teologia. Di questo calcolo, che è ora fiduciosamente e perentoriamente rivolto alla tecnica e alla scienza applicata, non capiremmo oggi le più segrete finalità senza risalire alle sue prime formule e conquiste. In Grecia e in India i riti e le offerte votive che accompagnavano le scoperte della scienza ne esaltavano le più essenziali connotazioni: l’intensa ricerca dell’esattezza, il rigore della dimostrazione, la volontà di stabilire una tesi in modo efficace e categorico. I moderni algoritmi hanno ereditato l’esattezza, l’effettività e perfino la struttura degli atti rituali che se ne servivano fin da tempi remoti. Forse gli antichi, pur trascurando inizialmente le potenziali applicazioni degli algoritmi, ne avevano già compresa, sul piano trascendente di una religio delimitata e scrupolosa, tutta la virtuale e temibile efficacia.
Paolo Zellini, la Repubblica 17/4/2014