Mirella Serri, La Stampa 17/4/2014, 17 aprile 2014
TANTO GENTILE E ONESTO PARE IL TROPPO CALUNNIATO MAIALE
«Brutto, grasso suino». No, non c’è scampo. Oggi come ieri, da secoli, il maiale non gode di grande considerazione. Dagli antichi egiziani in poi ha assunto i connotati di un animale da cui girare alla larga: come racconta il matematico e filosofo Eudosso, vissuto nella prima metà del IV secolo a.C., nelle terre lungo il Nilo appena si sfiorava un porco era obbligatorio gettarsi in acqua tutti vestiti per purificarsi. Per non parlare del poeta Orazio che nel primo secolo a.C. per autodenigrarsi si raffigurava come un grasso verro. O di sant’Agostino che in senso altamente dispregiativo definiva Epicuro come un «porco che si rotolava nel fango dei piaceri carnali». Da sempre, quindi, l’intelligentissimo suino non gode di buona stampa ed è sia l’incarnazione di orribili connotati fisici (avete mai provato a dire a qualcuno «sembri un maiale?») che l’emblema di tratti caratteriali ed etici assai disdicevoli: Giordano Bruno, per esempio, nel «Canto di Circe», sosteneva che il maiale è «avaro, barbaro, coperto di fango, fetido, ottuso».
Ma è davvero così? Il porco merita di essere l’animale-simbolo di tutto questo? A illuminarci sulle stravaganze e i pregiudizi che da millenni riversiamo sul razzolante inquilino di stabbi e porcilaie arriva adesso uno straordinario e dottissimo saggio dello storico dell’ambiente e del pensiero economico Roberto Finzi, L’onesto porco (Bompiani). Una divertente ricerca che non solo ci racconta la «Storia di una diffamazione», come recita il sottotitolo del libro, ma ci fa anche capire il nostro presente, ovvero le cecità e la quotidiana ipocrisia con cui, oggi più che mai, guardiamo al mondo animale e ci confrontiamo con i nostri bisogni alimentari ed elementari.
Finzi demolisce per prima cosa molti luoghi comuni sulla bestia che abita in cortili e letamai: a partire dal divieto ebraico (e islamico) di mangiarne l’appetitosa carne. Che, ci spiega il saggista, non è stato originato, come vuole una convinzione assai diffusa, dalla pericolosità di bistecchine, braciolette e affini, portatrici di infezioni se consumate in climi non temperati o roventi. «Vi sono popoli che vivono in zone calde e mangiano maiali…», obietta lo studioso. E osserva che l’interdetto religioso pronunciato sulle pagine della Bibbia colpisce anche tanti altri animali, come cavalli, asini, muli. Il suino inoltre, è un’altra sua peculiarità, si troverebbe a suo agio solo ed esclusivamente nella melma e nello sporco: privo di ghiandole sudoripare, come dimostrano molti studi, il maiale ha bisogno di frescura e di siti umidi come il fango.
Però, al contrario di quel che comunemente si crede, apprezza con entusiasmo un giaciglio ordinato e pulito per la notte. Il porco è ricco di attributi ultranegativi pure in letteratura: dall’«Odissea», con i marinai di Ulisse trasformati in maiali dalla maga Circe, alla Fattoria degli animali di George Orwell, dove nella schiera degli acuti e grufolanti animali spicca il dittatore Stalin: in ogni caso i suini incarnano le peggiori aberrazioni degli umani. «Troia, detto a femmina per ingiuria», si legge nel dizionario del Tommaseo: la parola con cui viene chiamata pure la scrofa nasce dal «porcus trojanus», un maiale arrosto ripieno di altri animali. Per questo incarna l’immagine dell’inganno e della menzogna, come il cavallo ideato da Ulisse per conquistare Troia. L’attributo assai poco lusinghiero finisce per indicare una donna goduriosa e lussuriosa, tal quale, insomma, alla definizione della femmina del maiale in molti testi, dall’antichità ai nostri giorni, senza alcuna convalida scientifica.
Un millenario biasimo investe dunque il povero suino. Com’è nata questa valanga di disistima? Si manifesta, spiega Finzi, solo quando il porco è vivo. Proprio così: la vicenda del maiale, lo rammentano i classici come il novelliere Franco Sacchetti, è simile a quella di un uomo buono o di un santo: vilipeso e maltrattato in vita, viene celebrato dopo la dipartita. Il porcello non solo finisce molto apprezzato in pentole e tegami ma tutto il suo corpo è per noi un immenso serbatoio di benessere, dalle setole al grasso. In altre parole «la necessità di saziarsi si rovescia in dramma», osserva il saggista. Per giustificare la necessità di sacrificarlo, lo abbiamo investito di una serie di calunniosi epiteti. Oggi, paradossalmente, li ribadiamo con tanta più convinzione e veemenza quanto più progrediamo nelle nostre battaglie ambientaliste e animaliste, o in quelle per i diritti delle bestie. Simbolo della nostra ipocrisia, il porco è doppiamente immolato sulla nostra tavola e sull’altare della nostra buona coscienza.
Mirella Serri, La Stampa 17/4/2014