Anna Zafesova, La Stampa 17/4/2014, 17 aprile 2014
SEPARATISTI E CARRI ARMATI. COSÌ IL CREMLINO INDEBOLISCE IL GOVERNO DEL POST MAIDAN
Mentre Vladimir Putin si prepara a parlare in diretta a reti unificate, nel tradizionale appuntamento annuale durante il quale ogni russo – ma quest’anno ci saranno anche telefonate dalla Crimea e dall’Ucraina – può fare una domanda al suo Presidente, nelle cancellerie della Duma circola un progetto legge, firmato da deputati di diversi partiti, che vuole cancellare la cancellazione dell’Urss nel 1991. Il problema dell’Ucraina così sarebbe risolto alla radice. E Putin si sveglierebbe Presidente di un impero rinato. Che questo sia il sogno e l’obiettivo dell’élite russa esaltata dalla «presa dalla Crimea» lo si è visto e sentito da più parti, dai corridoi del Cremlino alle tv della propaganda.
La missione di proteggere e riunire «il più grande popolo diviso» è stata formulata da Putin molto esplicitamente. E per quanto nell’aula della Duma, soprannominata ormai «la stampante impazzita», circolino le idee più folli, è anche un termometro di quello che frulla in testa al Cremlino. Quando Vladimir Zhirinovsky sale sulla tribuna in mimetica e chiede di conquistare 9 regioni «temporaneamente in mano all’Ucraina», bisogna stare attenti: era stato il primo a parlare di annessione della Crimea.
Oggi tutto è possibile perché, come dice il direttore della rivista «La Russia nella politica globale» Fiodor Lukianov, Putin ha «cancellato tutto il mondo post-89 per ricominciare da capo». I putiniani come il ministro dei Trasporti Vladimir Yakunin teorizzano un «paradigma di civiltà autonoma» da scegliere isolandosi e opponendosi all’Occidente. Ma Putin è noto per essere non tanto un sognatore quanto un pragmatico. La Crimea gli è già costata le sanzioni, e perfino dai comunicati del Cremlino si capisce che le sue telefonate con Obama e Merkel siano dialoghi tra un muto e un sordo, mentre l’unico politico occidentale a visitare Mosca nelle ultime settimane è stata Marine Le Pen. E gli «omini verdi» russi a Donetsk non hanno avuto finora la strada spianata. Resta l’opzione di una strage con conseguente intervento «in difesa dei connazionali» delle truppe russe ammassate sul confine, e la macchina della propaganda e delle provocazioni continua a lavorarci, spinta da un’opinione pubblica esaltata.
Un obiettivo però è già stato raggiunto: il governo di Kiev è in crisi politica, economica e ora anche militare. Il suo esercito stenta (o non vuole) a lanciare la controffensiva, e con metà Paese sotto il controllo dei separatisti e i carri armati per le strade le elezioni presidenziali del 25 maggio diventano impraticabili. Permettendo a Mosca di continuare a dire che a Kiev non c’è un governo legittimo, ma solo dei «golpisti nazisti» con i quali non si dialoga. L’Occidente, secondo i russi, non vorrà impegnarsi troppo: «C’è un atteggiamento sprezzante, è considerato incapace perfino di sanzioni serie», ritiene Nikolay Zlobin, presidente del Centro degli interessi globali a Washington. Il Cremlino fa capire agli Usa e all’Europa che in Ucraina sono finiti in un guaio, che solo i russi sono capaci e disposti a risolvere. Da cui anche la proposta di Serghei Lavrov di fornire aiuti a Kiev in cambio del riconoscimento dell’annessione della Crimea. Ovviamente non passerà. Ma intanto la corsa dell’Ucraina rivoluzionaria verso l’Europa rischia di impantanarsi come i carri armati di Kiev nelle campagne del Don, e in quel caso Putin può segnare un 2 a 0.
Anna Zafesova, La Stampa 17/4/2014