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 2014  aprile 17 Giovedì calendario

TRA FUCILI , TANK E BANDIERE RUSSE DOVE I SOLDATI DI KIEV CEDONO LE ARMI


In queste periferie slave abbandonate al fango che schizza via dalle ruote delle vecchie Lada in corsa, ci sono decine di soldati e tre file di carri armati immobili.
A Pcolkina, 2 ore da Donetsk, contadini stupiti, vestiti di stracci, intontiti sui binari, impediscono il passaggio a treni già lentissimi.
I soldati ucraini, arrivati da Lugansk e Dnipropetrovsk, tutti col kalashnikov al collo, sono seduti o stesi sui cingolati: stremati dall’attesa, tendono mani a offerte di sigarette, caramelle, acqua dei locali che si avvicinano. A Lugansk due soldati ucraini si fermano per riparare la loro auto, vengono sequestrati dai militanti.
È qui che la storia ha deciso di fermarsi oggi, in questi villaggi d’Ucraina dimenticati da entrambe gli Imperi, dove ora si gioca il futuro del prossimo Paese europeo.
«Sono capace di pensare, di parlare, di sognare in ucraino: ma sono russo e in russo voglio vivere. Non dovevano abolire la nostra lingua, non sarebbe successo tutto questo» dice un filorusso all’unico posto di blocco rimasto da Donetsk verso nord. Chi non ha mai smesso di sognare la grande Russia, con i vecchi contorni dell’Unione Sovietica, sa che «prima o poi il passato torna e si vendica». «Noi siamo il narod, il popolo, non siamo separatisti né terroristi». I filorussi dicono di aver convinto così alcuni soldati ucraini a consegnare le armi. Sei blindati, i caricatori dei fucili: i militari di Kiev cedono agli insorti, si rendono inoffensivi. Non una resa, ma una tregua per continuare a sostare nei carri armati fermi nei paesi circostanti. Sono giorni di verità al condizionale, dove tutto succede lontano da tutto e non trova quasi mai versione univoca.
Ognuno ci tiene a specificare che nessun russo della Federazione è «arrivato in Ucraina, almeno non ancora». È una guerra che si vede solo alzando gli occhi al cielo: un caccia romba bassissimo da Kramatorsk a Sloviansk, dove, abituati al boato costante degli elicotteri, non fa più paura a nessuno. Ma vola forse per far alzare la testa e ricordare, appena verniciato di giallo e blu, che questi sono ancora cieli ucraini.
All’aeroporto di Kramatorsk falce e martello di pietra in scala gigante, a dare benvenuto nella città, non sono mai state sostituite da niente sin dal 1991. Qui il filo spinato dei soldati ucraini poco equipaggiati è stato tagliato di notte, unica loro difesa tra la loro base e i filorussi. Alla base militare, circondata da un cimitero abusivo, dove si seppelliscono da anni uomini e cani, è dove la calca si affolla: «Non possiamo che chiedere aiuto alla Russia, ci è rimasto solo Vladimir Vladimirovic adesso». Sono gli uomini che tentano di convincere le divise a disertare, e che ci sarebbero già riusciti 300 volte: «State violando la Costituzione, voi dovete difendere il popolo ucraino, non difendervi da noi, dovete combattere loro», dicono sventolando un manifesto con la faccia scura di Obama con la treccia bionda della principessa del gas Timoshenko. «Perché l’Ucraina dovrebbe continuare a rimanere unita se ormai è regno dei Bandera? Io ho servito l’esercito dell’Unione Sovietica: l’esercito ucraino non esiste, non ha mezzi, lo stanno mettendo in piedi adesso. Ragazzi, ascoltatemi, unitevi a noi in tempo» dice un vecchio.
La guerra comincerà già dispari. Va avanti a colpi di erosione, impazienza e attesa di un nemico invisibile che potrebbe essere già passato dai confini porosi di Russia e Ucraina.
I sei carri armati dell’esercito ucraino nella piazza di Sloviansk battono ormai bandiera del Don Bass. Passati, «in seguito a sabotaggio», in mano dei filorussi che si sarebbero appropriati anche delle armi di alcuni plotoni. I cingolati sono guidati da uomini in divisa dal volto coperto, forse disertori, con canne di fucile sempre rivolte verso il basso.
Quella che chiamano ancora la resistenza di Sloviansk, in attesa che il futuro ucraino cambi domani a Ginevra, è diventato per qualche ora il selfie di bambini con bazooka, karaoke di classici sovietici, the e biscotti per tutti. Qualcuno è venuto qui sulle barricate lasciando il permesso di soggiorno in Italia perché è stanco di essere chiamato terrorista e «perché quelli dell’Ovest vogliono ripulire la nazione»: Anna era un’ostetrica in Unione Sovietica, una disoccupata in Ucraina e una badante in Italia.
Le trame geopolitiche sono ancora sconosciute ma, lei come molti, già comincia a sognare una pensione in rubli. Qui dove si sfiorano confine russo e ucraino comincia la frontiera di una tregua apparente. Quel famoso «lato sbagliato della storia», dove Obama aveva posizionato Putin, si lima stanotte qui a Sloviansk, a volto coperto, falò acceso, in una riunione degli ultimi patrioti.

Michela A.g. Iaccarino, La Stampa 17/4/2014