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 2014  aprile 16 Mercoledì calendario

«SIAMO LA CAPITALE, NIENTE SUDDITANZA CON IL NORD»

L’uomo ha due teste. Con una ti sorride e ti parla, con l’altra ti pesa. Ha voluto sapere tutto di te, prima. E adesso si gioca l’intervista. Farlo uscire allo scoperto non è cosa semplice, ma se ci sta è più vita che calcio. Classe 1964, radici andaluse e un passato da calciatore e allenatore in Francia, a cinquant’anni Rudi Garcia si è ritrovato mago della Roma e di Roma. Probabilmente davanti a un bicchiere di rosso della Borgogna avrebbe staccato un po’ di più i piedi da terra, ma sarà per la prossima volta. «Tutte le strade portano a Roma», dice la sua autobiografia. Molto misurata, fin troppo.

Mister Garcia, lei non si arrabbia mai?
“Sì, certo che succede. Ma io sono così, misurato. Non mi piace l’euforia e non mi piace cadere nel pessimismo”.

E non alza mai la voce?
“A volte, è normale. Se sei sempre uguale c’è qualcosa che non va. Se urli troppo, dopo un po’ quello che dici entra da una parte ed esce dall’altra. E se non urli mai, non va bene lo stesso. Quindi, se l’arrabbiatura arriva ogni tanto vale di più”.

Ha studiato Scienza dello sport. E psicologia?
“Qualche corso con la Federazione, ma niente di specifico”.

Però le piace.
“Tanto”.

E la applica, mi pare.
“In modo naturale. Col buon senso e la logica”.

Sa, una delle cose che hanno stupito è stata questa sua rapidità nel riuscire a ricostruire un ambiente e una squadra che sembravano aver smarrito la propria identità.
“Ma no, è stato facilissimo”.

Addirittura.
“Beh, quando si è così a terra non si può che risalire. L’unico segreto è stato di concentrarmi sui giocatori e non sull’ambiente intorno. Fargli riacquistare il piacere del gioco. In fondo, noi allenatori e loro stiamo bene quando in campo le cose funzionano. E per farle funzionare bisogna andarci con gioia. Poi il resto viene quasi da solo. I giocatori prendono gusto ad allenarsi e a vincere giocando bene”.

Lavora più sui pregi o sui difetti?
“Sulla qualità di un giocatore, perché se c’è bisogna mantenerla. Soprattutto se non è un ragazzo. Poi lavoro anche sui difetti”.

Glielo chiedo perché molti sostengono che la sua bravura sia stata soprattutto quella di capire subito i difetti di questa squadra, e di questa città.
“Non lo so. Quando sono arrivato mi sono tappato le orecchie, per non ascoltare i consigli degli altri. E anche gli occhi, per non guardare le partite del passato. Compresa quella finale di Coppa Italia. Per me è importante ciò che vedo e che voglio fare con la squadra”.

E la città?
“Si goda il momento felice. Senza complessi di inferiorità nei confronti del Nord. Noi siamo la capitale, siamo forti, abbiamo tante belle cose da vivere insieme”.

Quanto tempo dedica alla testa dei calciatori e quanto alla tecnica?
“All’inizio era settanta per cento lavoro sul campo e trenta per cento gestione degli uomini. Adesso è tutto cambiato, c’è molta più pressione sui calciatori da parte dell’ambiente, dei media e dei social network”.

Si sta divertendo?
“Molto. Ma anche loro. Quando vedo una partita come quella che abbiamo vinto con l’Atalanta, sono sicuro che il mio piacere è stato anche il loro piacere. E tutto questo si trasferisce anche nel piacere dei tifosi”.

Ha un sacco di tifosi anche tra i politici. La infastidisce?
“No, lo trovo bello. In Francia è lo stesso. Se è vero che il calcio è lo sport più popolare al mondo, significa che non è questione di classe sociale né di professione. Il calcio livella tutto. Riporta tutti sullo stesso piano”.

Che rapporto ha con la politica?
“Io non faccio politica. Voto, perché è un diritto per il quale ha combattuto tanta gente e non ce lo dobbiamo dimenticare mai”.

Lei viene da un paese che ha regalato al mondo principi di libertà fondamentali.
“Principi che sostengono i diritti degli uomini, è vero. Però c’è ancora molto da fare. Penso che nel calcio e in ogni lavoro sia sempre l’uomo a fare la differenza. Abbiamo bisogno di persone appassionate, che diano il meglio perché la vita diventi migliore per tutti, soprattutto in un momento come questo in cui la gente soffre”.

E’ religioso?
“Credo, ma non pratico. Credo nella qualità dell’uomo e ho fiducia totale nell’intelligenza, soprattutto in quella dei giovani”.

In Italia la politica spesso si mescola al tifo, e questo crea situazioni difficili e violente da gestire. Oltre a snaturare il senso sportivo di una partita di calcio.
“E tutto ancora più distorto dalla norma sulla cosiddetta “discriminazione territoriale”, che non esiste in nessun altro paese. Se giochiamo in casa contro l’Inter, una delle partite più viste al mondo, e lo stadio è quasi vuoto non è una buona pubblicità per il calcio italiano. La gente poi fa confusione, pensa che qui tutti i tifosi siano razzisti e invece non è così. Perché non seguiamo l’esempio di altri Paesi? Una volta era lo stesso in Inghilterra, ma ora si può andare allo stadio tranquillamente portando i bambini”.

In Inghilterra era peggio.
“Molto peggio. Ma se hanno risolto il problema, vuol dire che si può fare. Se uno va allo stadio e non si comporta da sportivo penso che per il resto della vita non gli debba essere consentito di rimetterci piede. Le regole ci sono, vanno rispettate”.

Trova che il calcio sia diventata una professione da mercenari, dove è il denaro a regolare le scelte individuali?
“Per me è passione. E’ già un privilegio poter vivere di questo. Poi nella mia lista delle priorità viene la voglia di vincere e vincere titoli. Forse in uno sport individuale è diverso. Chi gioca a tennis ha intorno una piccola squadra che lo assiste. Ma vincere con un collettivo ti procura una gioia indescrivibile”.

Grandi emozioni.
“E’ per questo che faccio l’allenatore. Per vivere emozioni forti insieme agli altri. Non capita spesso, ma quando succede…”.

Beh, lei allo stadio ogni tanto salta.
“Sì, la partita la vivo. Ognuno è libero di fare l’allenatore come vuole, ma io credo che da bordo campo si possa fare molto… non capisco quelli che dicono: quando la partita comincia, non c’è più niente da fare. Perché non se ne vanno a bere un caffè a casa o a guardare la televisione nelle sale Vip?”.

Il denaro per Garcia?
“Mai fatto una scelta per denaro. Io scelgo un progetto, per questo sono alla Roma. I proprietari americani ne vogliono fare uno dei più grandi club europei e hanno ragione”.

Le credo. Ma come si fa a spiegare a un ragazzo che fa il calciatore e viene comprato per trenta o cinquanta milioni di euro quale è il valore del denaro?
“Non voglio fare il vecchio combattente ma penso che diamo troppo e lo diamo troppo presto. Uno può dire: è colpa del sistema, degli sponsor, della televisione. Io dico che su questo i dirigenti, e non solo in Italia, dovrebbero riflettere. Non ho mai visto un giocatore che ruba i soldi che gli vengono dati da un presidente di club, ma ai giovani bisogna spiegare che tutto quello che si guadagna è frutto della fatica”.

Ai suoi tempi questi soldi non c’erano.
“Certo che no”.

Quando ha cominciato a innamorarsi di Roma?
“Ma…”.

Sinceramente. Perché quando uno arriva all’aeroporto e ti mettono al collo la sciarpa giallorossa è troppo facile dire: forza Roma.
“Per la verità, la città la conoscevo. Sapevo quanto è bella. Adesso sto cominciando a scoprire la Roma dei romani, più che quella dei turisti”.

E quando è diventato romanista?
“Dopo il derby. Quello è stato il clic. Se ne era parlato tanto prima, ma noi avevamo una sola cosa da fare: vincere la partita, cancellare il passato…”.

E rimettere la chiesa al centro del villaggio.
“Appunto”.

Adesso che la squadra va benissimo, quando passa Garcia il traffico si apre.
“No, veramente ieri mi hanno fatto una multa”.

Sarà stato un laziale.
“Non lo so, non importa. Ma a proposito di misura, non sono un ingenuo. Ora che va tutto bene sembra una passeggiata. Non sarà sempre così. Questi eccessi li ho vissuti anche con i giocatori, all’inizio della stagione”.

Era dura?
“Era terribile”.

Ci sono grandi aspettative.
“Lo so, lo so. L’ho già passata al Lille questa esperienza. Dopo che hai vinto il titolo, la gente si aspetta molto. Soprattutto quando giochi un bel calcio. Ma è così anche nella vita. Se ti abitui a mangiare sempre in un ristorante con le stelle, quando torni alla cantina è dura. Ma può succedere, è anche normale che succeda”.

Quanti anni pensa di rimanere?
“Quando lavoro in un club lo faccio come fosse l’ultimo. Anche qui. Ma non dipende solo dall’allenatore, c’è un presidente e ci sono i risultati. Non sono caduto con l’ultima pioggia, come si dice in Francia. E verrà forse un giorno in cui, non per mia decisione, dovrò andarmene. Infatti, all’ingresso di casa tengo la valigia pronta”.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla Roma?
“Di terminare questo campionato eccezionale al posto più alto e dopo di giocarcela in Champions e lottare per lo scudetto. Ma per farlo dovremo metterci intorno a un tavolo coi dirigenti e vedere cosa si può fare, soprattutto sul piano economico. Io sono ambizioso e a volte poco paziente, ma so anche che Roma non è stata fatta in un giorno”.

Quanti club la stanno cercando?
“No, guardi: sto benissimo qui e spero di vincere dei titoli qui. Anche se ci sono ancora quindici punti in ballo, sembra che non sarà per quest’anno. Ma è l’obiettivo per cui dobbiamo lavorare”.

Sabato va a sfidare la Fiorentina, che è la squadra del presidente del consiglio Matteo Renzi. Lo sapeva?
“No. Ma adesso lo so”.

Problemi?
(sorride) “Macché. E’ una partita. Novanta minuti. Sarà una bella gara. La Fiorentina gioca bene, mi piace. Ma mi piace di più la Roma”.